La disciplina degli appalti pubblici è stata oggetto, soprattutto negli ultimi anni, di numerosi interventi da parte del legislatore nazionale.
Si è, infatti, assistito, e si assiste ancora oggi, ad una considerevole e costante produzione normativa in materia di contrattualistica pubblica.
Tuttavia, a tale proliferazione legislativa non è sempre seguito un eguale e corrispondente sviluppo “qualitativo”.
Senza dubbio il D. Lgs 163/06 ha costituito un importante e fondamentale passaggio nell’evoluzione normativa in materia di appalti pubblici.
Ed invero, il Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, elaborato sulla base delle recepite direttive comunitarie che hanno fissato i limiti della delega di cui all’art. 25 della legge n. 62/2005, rappresenta un importante strumento di razionalizzazione e coordinamento di tutta la materia degli appalti pubblici, antecedentemente disciplinata da ben 29 distinte fonti normative.
Al momento della sua entrata in vigore il D. Lgs 163/06 fu considerato come uno strumento di riordino e semplificazione dell’intera normativa di settore e di maggiore certezza operativa per gli addetti ai lavori, coordinante la disciplina degli appalti ordinari (direttiva n. 2004/18) e dei settori speciali (direttiva n. 2004/17), fino ad allora considerati disgiuntamente nel nostro ordinamento, e unificante in maniera organica la disciplina degli appalti sopra e sotto soglia comunitaria.
La prospettiva di riordino normativo, tuttavia, si è rilevata soltanto formale.
Ed invero, nonostante l’approccio apparentemente sistemizzante della nuova normativa, si è assistito, sin dalle prime applicazioni, ad una serie illimitata, e non ancora conclusa, di interventi integrativi e modificativi da parte del Legislatore nazionale volti al tentativo di correggerne i limiti e le carenze.
Nonostante il nuovo codice degli appalti fosse costituito, sin dalla sua entrata in vigore, da un numero considerevole di norme (ben 257 articoli e 22 allegati) rispetto a quelle contenute nelle due direttive europee recepite (che insieme contano meno di 160 articoli), lo stesso è risultato del tutto insufficiente a regolarizzare compiutamente la materia.
Ed infatti, l’oggettiva complessità della contrattualistica pubblica, il suo peculiare tecnicismo, la rilevanza degli interessi economici coinvolti ed il valore complessivo degli affidamenti ad evidenza pubblica (pari a circa l’8,1% del Pil nazionale) hanno reso necessario un continuo intervento legislativo portato, parzialmente, a compimento con l’emanazione del D.P.R. 207/10 (c.d. Regolamento di esecuzione ed attuazione del Codice dei contratti pubblici”).
L’iper-regolamentazione della materia non è, tuttavia, riuscita ad arginare il fenomeno corruttivo dilagante nel nostro Paese ed emerso con particolare forza negli anni Novanta.
Dopo il ciclone Tangentopoli del 1992 il Parlamento approvò nel 1994 la nuova legge in materia di appalti pubblici, su proposta del ministro Merloni.
L’aggiudicazione mediante l’utilizzo del solo criterio del prezzo più basso, unitamente a stringenti criteri di selezione e ad una significativa riduzione della discrezionalità amministrativa, costituivano gli strumenti attraverso i quali, con la Legge Merloni si era tentato di contrastare le distorsioni delle gare d’appalto.
Tale irrigidimento esasperato delle procedure in funzione anticorruttiva si tradusse, tuttavia, in patologici ribassi anomali, con conseguente rallentamento/blocco della fase di esecuzione delle procedure di affidamento, tanto è vero che, successivamente, fu necessario un passo indietro, attraverso una serie di interventi legislativi correttivi.
Nonostante l’ottica di maggiore apertura del settore alla concorrenza e ad una maggiore flessibilità delle procedure adottata con il nuovo Codice, i fenomeni della collusione e della corruzione continuano ad affliggere il settore.
L’entrata in vigore del D. Lgs 163/06 non ha, infatti, risolto, le problematiche sottese all’eccessiva regolamentazione ed alla rigidità della materia che risultano, oggi, nonostante l’aumento della trasparenza e la riduzione della discrezionalità amministrativa, ancora presenti nel nostro Paese.
Si assiste, infatti, ad una crescente elusione della normativa da parte delle Stazioni Appaltanti che, dinnanzi a procedure farraginose ed in continua evoluzione, tentano di derogare la normativa vigente attraverso un’utilizzazione ed un’applicazione forzata degli istituti previsti dal Legislatore.
Un caso tipico, in tal senso, è rappresentato dagli appalti sotto la cosiddetta “soglia comunitaria”, omologati e unificati dal Codice, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, ai contratti sopra soglia.
Tale equiparazione ha comportato l’applicazione di regole stringenti anche per gli appalti di importo inferiore alla soglia comunitaria.
Questa situazione ha portato, per gli acquisti in economia, al proliferare indiscriminato di regolamenti o atti amministrativi generali di attuazione ex art. 125, comma 10, del D. Lgs 163/06.
L’utilizzo incontrollato di tali forme di autoregolamentazione ha generato un incremento del fenomeno corruttivo in quanto l’individuazione dell’aggiudicatario rimane nella piena discrezionalità delle singole Amministrazioni e, pertanto, a rischio di accordi occulti con i partecipanti selezionati dalle stesse Stazioni Appaltanti.
Si assiste, altresì, al proliferare di creazioni di bandi ad hoc da parte delle Pubbliche Amministrazioni, ovvero di gare volte a favorire un singolo concorrente ed appositamente predisposte per favorirlo, attraverso l’inserimento di stringenti requisiti soggettivi ed oggettivi, individuati sulla base delle sue specifiche caratteristiche e tali da escludere gli altri partecipanti.
La nuova normativa si è rivelata inidonea ad arginare anche i fenomeni di collusione tra imprese.
Le modalità con cui due o più imprese si accordano tra loro per aggiudicarsi, a turno, le varie gare d’appalto sono molteplici: accordi preventivi sul prezzo offerto o sul soggetto che dovrà partecipare ad una determinata procedura; spartizione dei lotti disponibili, presentazione di più offerte riconducibili ad un unico centro di interesse, il ritiro delle offerte senza giustificato motivo.
La collusione tra imprese, nell’ambito delle procedura ad evidenza pubblica, non si arresta alla cordata in vista dell’aggiudicazione.
Non mancano, infatti, RTI costituiti unicamente al solo fine di far circolare, tra le partecipanti, denaro proveniente da attività illecite, a fronte di alcuna corresponsione di prestazioni tra le componenti il raggruppamento.
Anche l’utilizzo delle centrali di committenza, in particolare Consip non ha portato a quel risultato di maggior controllo sulle procedure di affidamento auspicato dal Legislatore.
L’istituto della Stazione Appaltate Unica, creato per consentire un risparmio di spesa per le Pubbliche Amministrazioni, si è rivelato, così come strutturato, del tutto inidoneo a raggiungere l’elevato grado di efficienza e concorrenzialità perseguito dal Legislatore.
La selezione dei fornitori Consip attraverso l’espletamento di procedure di gara su una base territoriale non legata all’effettivo numero di Pubbliche Amministrazioni presenti nelle relative Regioni, ha comportato una facile elusione delle Convenzioni della Centrale di Committenza.
Le Stazioni Appaltanti dei territori a più alta densità, infatti, al momento del raggiungimento dell’importo di aggiudicazione del lotto di appartenenza, si trovano svincolate dall’obbligo di adesione ai prezzi ed alle condizioni già determinate dai fornitori selezionati.
A loro volta, le Pubbliche Amministrazioni presenti nei territori di meno consistenza geografica, non riescono ad aggiudicare contratti a condizioni migliori rispetto a quelli della Convenzione ed al fornitore selezionato, paradossalmente, non vengono affidate commesse che coprano l’importo di aggiudicazione della gara Consip.
E’ chiaro che l’intento del Legislatore di contenere il più possibile la lievitazione dei costi degli affidamenti fallisce miseramente dinnanzi ad un sistema così come oggi strutturato.
Le decisioni adottate senza tener conto della reali condizioni di mercato portano, infatti, ad un’alterazione della par conditio tra i partecipanti ed ad una continua e costante ricerca di strumenti atti ad eludere una così stringente normativa.
Solo il rafforzamento di taluni istituti, ancorato alle concrete e reali esigenze delle Stazioni Appaltanti e degli operatori economici, unitamente al rafforzamento delle istituzioni preposte al controllo, possono garantire quelle condizioni di imparzialità, trasparenza, flessibilità e celerità delle procedure volute dal Legislatore e rimaste, fino ad oggi, irrealizzate.
Per il raggiungimento di tali obiettivi sarebbe, inanzitutto, necessario che la legificazione in materia di appalti venisse affidata a professionisti ed operatori del settore, unici veri conoscitori del sistema, e non, come oggi accade, a magistrati amministrativi, spesso terzi anche rispetto alle reali esigenze del Paese.
Sarebbe, altresì, auspicale l’istituzione, all’interno delle Procure, di vere e proprie sezioni specializzate in materia di appalti cui affidare la trattazione di controversie in cui risulta particolarmente sentita la necessità di assicurare un’elevata specializzazione in ragione dello specifico tasso tecnico richiesto dallo studio della materia e prevedere, all’interno delle stesse, la costante presenza di esperti e tecnici del settore.