Dialogo tra un cliente e un avvocato amministrativista onesto (ovvero, di una vera e propria gara di povertà)

Se è vero che la giustizia amministrativa vive un momento certamente migliore di quello in cui versano la giustizia civile e penale, sia per la celerità dei tempi di definizione dei processi sia per il clima certamente più dignitoso che accoglie gli avvocati, è altrettanto innegabile che la crisi del pianeta giustizia non risparmia nessuno, e quindi neppure il mondo del processo che ha ad oggetto gli atti delle Amministrazioni.


In particolare, in questo frangente di crisi economica spaventosa, è diventato sinceramente inavvicinabile anche il sistema della giustizia amministrativa al punto da scoraggiare chi ad essa è costretto, suo malgrado, a dovervi ricorrere.
A questo proposito una esemplificazione concreta, sul piano pratico, rende meglio di qualsiasi postulazione teorica.
Un povero cristo, alla ricerca da tempo di un posto di lavoro confacente al suo titolo di studio, partecipa ad un concorso per la copertura di posti di pubblico impiego presso un’Amministrazione statale. Durante lo svolgimento di una delle prove, espletate dopo mesi dall’indizione della procedura selettiva, si accorge di una serie di plateali irregolarità compiute dall’Ente che ha bandito il concorso, nella valutazione dei propri elaborati, tali da costringerlo a recarsi da un avvocato per chiedere tutela non essendo stato ammesso alle prove orali. “Non posso permettermi, ora che sono in mezzo al guado, e dopo aver buttato mesi per curare la preparazione specifica richiesta dal bando, farmi fregare in questo modo e rimanere passivo dinanzi alle illegittimità perpetrate, dalle quali rischio di rimanere soccombente” dice al proprio legale, col quale ha passato in rassegna tutti i vizi della procedura a suo danno, denunciabili in un apposito ricorso al T.A.R.
Giunge, alla fine del colloquio, la fatidica domanda: “Avvocato, ma quanto mi costa impugnare l’esclusione?”. Non già una di quelle domande scontate (del genere “ma quante possibilità ho di vincere la causa?”) poiché il concorrente è piuttosto sicuro del fatto suo. “Sa, avvocato – prosegue il “cliente” – io sono sostanzialmente disoccupato, anche se non più in tenera età, mi arrangio, faccio dei lavoretti, ma il suo onorario lo dovranno pagare i miei genitori. E l’unico a portare soldi a casa è mio padre, che è impiegato al Ministero, perché mamma è casalinga”.
L’avvocato al quale si è rivolto il giovanotto ha uno studio “artigianale”, di tre stanze, con un praticante al quale insegna in modo tradizionale la professione da un paio di anni ed una sola segretaria, che la mattina compie i “giri esterni” mentre il pomeriggio resta a studio a dattiloscrivere gli atti, ricevere i clienti, sistemare l’archivio. Pochi costi, contenuti da sempre anche prima dello scoppiare della crisi economica.
L’avvocato riflette un attimo, prima di parlare, dando l’idea di far qualche conto a mente. Da qualche tempo anche i giudizi in materia di lavoro (ivi compresi, ovviamente, quelli relativi al pubblico impiego) sono soggetti al pagamento del contributo unificato. “Seicento euro secchi se ne vanno allo Stato per le tasse, immediatamente, amico mio”, esordisce nel dare la propria risposta il professionista. Poi si fa due conti, per il proprio compenso, applicando le “tariffe forensi” (vecchie oramai già di otto anni e non più utilizzabili ex se, ma che comunque possono ben costituire un punto di riferimento per gli avvocati “vecchio stampo”). Posto che la causa ha un valore indeterminabile ed ancorandosi ai “medi” (cioè non applicando né i valori minimi né quelli massimi) viene fuori una somma, per i soli onorari, di 3500 Euro (900 Euro per lo studio della causa, 300 per i colloqui con l’assistito, 200 per l’acquisizione dei documenti, 1100 per la stesura del ricorso, 200 per la proposizione dell’istanza cautelare, 800 per la discussione in camera di consiglio per perorare la richiesta di ammissione con riserva alle prove orali).
Se si calcolano anche i diritti (le “competenze”) la somma per questa posta ammonta, più o meno, a 1000 Euro.
Insomma, spese vive per 600 Euro ed un compenso di 4500. Cui vanno poi aggiunte le spese generali (pari al 12,50% degli onorari e dei diritti, e quindi una somma di poco superiore ai 560 Euro), l’Iva al 21% (945 Euro) e la Cassa Avvocati al 4% (180 Euro). Praticamente, una batosta. Il concorrente al concorso resta di sasso: 6785 Euro, che secondo il vecchio conio, fanno tredici milioni e mezzo! “Quasi un intero stipendio annuale di mio padre”, esclama sconsolato il poveraccio.
Il professionista si guarda con una certa mestizia il potenziale cliente. Prova a dirgli che lui è uno onesto, e che è disposto a togliere tutti i “diritti” (mille Euro), per fargli uno sconto sostanzioso. Ma soggiunge che di quello che l’assistito paga, la gran parte se ne va allo Stato. Non solo gli iniziali 600 Euro del contributo unificato, non solo l’IVA, ma anche – visto che gli rilascerà regolare fattura – quasi la metà di quei 3500 Euro pagati a titolo di onorari.
L’Avvocato avverte, poi, il cliente, che se dovesse pensare di rivolgersi – com’è suo diritto – ad uno di quei grandi studi americaneggianti, dove solo per sederti devi pagare, l’importo non sarà neppure lontanamente paragonabile a quello da lui preventivato, perché quelle strutture hanno da sostenere costi esorbitanti (tra personale, affitto di studi prestigiosi, ammortamento di beni strumentali di rilievo, spese di rappresentanza e pubblicità, consulenti vari, eccetera) che lui fortunatamente non conosce.
Il cliente chiede di pensarci un po’ su: gli scoccia, francamente, lasciar perdere e privarsi della possibilità (anche fosse una su cento) di essere ammesso agli orali (confidando poi di vincere il concorso). Ma non se la sente, al contempo, di strizzare il bilancio della propria famiglia al punto tale da costringere a sacrifici enormi i genitori.
L’avvocato non sa dargli torto. Del resto anche lui, per un’attività che lo impegnerà nello studio più di qualche giorno e che importerà che la sua segretaria compia numerosi incombenti esterni (per chiedere la notifica del ricorso, per ritirarla, per formare il corposo fascicolo, per iscrivere la causa al ruolo, per andare a verificare quando l’udienza sarà fissata, ecc.), sa già che guadagnerà poco più di mille Euro netti: ha studiato una vita, si continua ad aggiornare continuamente, specializzandosi nella materia (altrimenti un cliente così non sarebbe andato da lui a chiedere aiuto), se si dovesse ammalare o subire un infortunio non avrà alcun indennizzo, rischia in proprio.
Non sappiamo se la decisione, che infine – in un termine tutto sommato breve – il giovanotto dovrà assumere, sarà positiva (firmerà la delega) o meno (abbandonerà l’idea del ricorso).
Se il cliente dovesse rinunciare, egli perderà persino la chanche che la proposizione del giudizio gli avrebbe attribuito, mentre l’avvocato non guadagnerà neppure quei mille euro con i quali, nel mese, avrebbe potuto contribuire a pagare l’affitto o lo stipendio della segretaria. Saranno, cioè, tutti e due più poveri.
Ma sta di fatto che se ricorrere al Giudice è diventata una impresa, economicamente insopportabile, vuol dire che non viviamo più in un Paese che una volta era definito la “culla del diritto” e che l’art. 24 della Costituzione è norma desueta, che, appunto, resta desolatamente solo scritta sulla carta.

Rodolfo Murra

Rodolfo Murra vanta una lunga militanza, dopo aver svolto un breve periodo di libera professione, nell’Avvocatura pubblica. Ha diretto l’Avvocatura del Comune di Roma Capitale e quella dell’Acea, ed ora è il Capo dell’Avvocatura della Regione Lazio. Dottore di ricerca in diritto processuale civile è da molti anni docente presso la Scuola di specializzazione per le professioni legali presso “La Sapienza”. Autore di vari contributi a carattere scientifico, ha anche diretto con profitto alcune strutture burocratiche (come l’Ufficio Condono Edilizio del Comune di Roma od il Municipio X). E’ stato Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma per quattro anni, ricoprendo anche la carica di Segretario.