Chi ha “inventato” la mediaconciliazione obbligatoria ha certamente pensato di risolvere due problemi, creando occasioni di lavoro e auspicando la deflazione del contenzioso.
Prima ancora della bocciatura costituzionale ci si era già accorti dell’ingenuità del legislatore: sotto il primo profilo, i pochi euro a sessione pagati all’esercito di neomediatori non ha contribuito a sollevare il settore forense dalla crisi di lavoro e di incassi, consentendo anzi l’intrusione competitiva di mediatori non giuristi. Sotto il secondo profilo, la deflazione del contenzioso si è limitata ad un illusorio effetto di breve periodo: l’inevitabile ritardo delle nuove iscrizioni a ruolo in pendenza di mediazione ha determinato un transitorio calo di crescita di nuovi giudizi.
L’istituto ha inoltre indotto molti ad investire nella costituzione di enti di mediazione; investimento che si è rivelato un po’ frettoloso e superficiale poiché l’obiettivo era quello di soddisfare una domanda di servizi giudiziari privati imposta dalla legge, non già di creare valore. Chi viene dall’impresa, invece, sa benissimo che solo la creazione di valore consente di competere nel medio-lungo periodo con effetti sul ROI. Non a caso gli enti di mediazione sono stati fondati da soggetti spesso molto lontani dall’impresa.
Il vero problema, però, è l’effetto deleterio che la mediaconciliazione ha avuto sul tessuto sociale nazionale.
Chi si occupa di diritto sa quanto sia complesso ottenere l’adempimento delle obbligazioni contrattuali in un Paese il cui sistema giudiziario impone anni di attesa per ottenere una pronuncia giudiziale. Tutti sanno che le lungaggini giudiziarie rendono spesso indispensabile rinunciare a qualcosa pur di incassare un credito. Rinunce che possono riguardare non solo le spese legali (tanto poi si risparmia sull’avvocato!) e gli interessi, ma anche la sorte capitale.
Raramente il creditore ottiene il pagamento degli interessi moratori di cui al D. L.vo 231/2002, proprio perché il debitore mette sul tavolo negoziale la richiesta di un rilevante sconto per fare fronte alle proprie obbligazioni. Nell’attuale sistema finanziario, ingessato dalla scarsità di risorse monetarie per le banche, dall’assenza dei presupposti di Basilea, e dalla endemica scarsità di propensione al rischio delle istituzioni bancarie, il cash flow è diventato l’obiettivo principale di chi fa impresa. La conseguenza è che si preferisce negoziare un forte sconto pur di incassare: lo sconto remunera il costo del denaro ed il fattore tempo.
In questo contesto la mediaconciliazione obbligatoria è quanto di più antieducativo si potesse inventare: si conferma al debitore che non solo per pagare c’è tempo, ma addirittura che il creditore non può andare in giudizio se non è prima passato per le forche caudine dell’istituto. In quella sede il mediatore farà di tutto per evitare il contenzioso, non già invitando il debitore a rispettare gli impegni presi, ma piuttosto sollecitando il creditore a rinunciare ad una parte del dovuto. Cos’altro potrebbe fare il mediatore per cercare di avvicinare le parti?
L’ipocrisia dell’istituto è evidente: esso non serve a deflazionare la giustizia, ma ad aiutare i debitori inadempienti a negoziare uno sconto sostanzioso legittimando la richiesta con il necessario passaggio preprocessuale.
La parte adempiente viene costretta a sedersi ad un tavolo al quale non solo l’inadempiente ma anche lo stesso mediatore le chiede di rivedere la sua posizione rinunciando a qualcosa. Non possiamo avallare un sistema giuridico basato su questo ricatto morale. Anche molti giuristi contrari alla mediaconciliazione in questi mesi hanno in qualche modo difeso l’istituto, purchè ne fosse eliminata l’obbligatorietà, sull’onda emotiva e sulla moda imposta dal legislatore. Tuttavia, bisogna avere il coraggio di difendere il sistema giuridico da innovazioni che, seppure ispirate da buone intenzioni, hanno poi effetti deleteri.
La funzione della Giustizia è di assicurare la tutela dei diritti, ed è una funzione costituzionale. Ciò non può comportare l’imposizione di sconti forzosi al soggetto portatore di un diritto, al quale invece è necessario assicurare soddisfazione con gli strumenti che l’ordinamento giuridico mette a disposizione. Tra tali strumenti non c’è e non ci può essere la mediaconciliazione.
Chi ha a che fare con la Giustizia sa che l’unica molla che spinge l’inadempiente all’adempimento è il timore di dover “pagare di più”, in termini di sorte, interessi, spese, sanzioni, senza alibi.
La soluzione deflattiva quindi, va in direzione opposta alla mediaconciliazione: essa dipende dall’effettiva possibilità di ottenere giustizia, ottenerla in tempi brevi, eseguire i provvedimenti giudiziali.
Avrebbe molto più senso ricorrere ad un arbitrato rituale amministrato, trasferito su strutture private (magari recuperando gli enti di mediazione) e con costi contenuti: le parti che si incontrano in una procedura arbitrale sanno che si tratta di un vero e proprio giudizio, con tutte le garanzie processuali, che condurrà inevitabilmente alla condanna della parte inadempiente mediante un provvedimento definitivo (magari non “appellabile” né ricorribile in Cassazione). Allora sì che questa avrà interesse a “mediare”, avvicinandosi alla pretesa della parte adempiente.
Inoltre, è nella fase esecutiva che il legislatore dovrebbe intervenire, poiché è sotto gli occhi di tutti quante e quali difficoltà incontri l’onesto creditore a far eseguire il provvedimento finalmente reso, una volta consacrato in una decisione. E’ inutile stabilire forme alternative al giudizio per il componimento bonario delle liti, se la decisione finale è destinata anch’essa a sprofondare nella nota, lenta, costosa e fiacca prassi delle esecuzioni.
Anche qui, l’obiettivo di deflazionare la giustizia e di realizzare nuovi posti di lavori potrebbe essere facilmente raggiunto mediante l’impiego di ausiliari privati dell’ufficiale giudiziario (come innovativamente proposto lo scorso giugno dal Movimento Forense in un Convegno a Roma); la consapevolezza che l’esecuzione di un provvedimento definitivo non sia soggetta a termini lunghissimi ed imprevedibili responsabilizzerebbe quella moltitudine di furbi che, tanto per fare un esempio, smettono di pagare il canone di locazione, ben sapendo che il proprietario è di regola disposto ad abbuonare qualunque cifra, pur di rientrare nel possesso del proprio appartamento.
Il punto di incontro che si cerca con la mediaconciliazione è troppo spostato dalla parte dell’inadempiente. La prospettiva di un giudizio (anche arbitrale) consente invece di riequilibrare il rapporto tra le parti senza precludere la possibilità di raggiungere un accordo transattivo, ma riportando i termini del possibile accordo nell’ambito di una giustizia sostanziale e nell’ottica di una reale tutela costituzionale dei diritti.