Ai ragazzi che si avvicinano alla professione forense – senza con ciò volerne spegnere l’entusiasmo, ma desiderando che fin dai primi passi abbiano la coscienza di un percorso affascinante, ma insidioso, da affrontare con la massima serietà – dico di non guardare a me ed alla mia piccola bottega artigiana, ma di immaginarsi come sarà l’Avvocatura negli anni tra il 2030 ed il 2040, allorché loro saranno nella piena maturità di quarantenni: e di puntare a quel modello.
Qualcuno di loro – quello che si riprende prima dallo sconcerto (qualità, questa, avvocatesca) – mi chiede di sapere come io penso che sarà la professione tra un ventennio.
Naturalmente non ne ho la più pallida idea. Credo, però, di potere tentare di svolgere un’analisi sull’evoluzione attuale: ovviamente analisi del tutto personale e soggettiva, basata sulla mia percezione della realtà nella quale operiamo.
Il primo dato da cui muoverei è la perdita del primato.
Un tempo – era ancora così quando io cominciai la mia avventura sulla fine degli anni Settanta – l’Avvocatura primeggiava. L’avvocato era la professione più prestigiosa tra quelle liberali e superava quella del giudice. Salvo passioni personali verso la magistratura, l’Avvocatura era la prima opzione. I miti degli studenti universitari di quegli anni erano gli avvocati, non i giudici.
Eppure è proprio in quegli anni che è la radice del cambiamento. L’enorme numero di iscritti in giurisprudenza (alla Sapienza – unica Università romana – si faceva a pugni per trovare un posto a sedere lezioni) trovava uno sbocco naturale (in realtà non naturale, ma solamente più comodo) nell’Avvocatura.
Tutti i concorsi pubblici erano a numero chiuso ed offrivano non più di qualche centinaio di posti l’anno (considerate anche che, all’epoca, i concorsi di magistrato e notaio si bandivano ogni due/tre anni); poco più di mille posti riservati ai laureati in giurisprudenza, se si ha riguardo all’intero comparto pubblico. Ecco che, da allora, si cerca una uscita di sicurezza per il caso di non vincere un concorso. La costante di tutti laureati era (è) di farsi fare il certificato di pratica forense e di partecipare all’esame per procuratore legale che in molte Corti d’Appello (ma quasi dappertutto, direi) era una formalità: tanto – dicevano i Consigli dell’Ordine – la selezione la farà il mercato (e, fateci caso, quanti notai, quanti magistrati si fregiano anche del tutolo di “avvocato” che, una volta acquisito non si perde mai).
Così, velocemente, si passò dai poco più di cinquemila iscritti di quando cominciai la pratica (aprile 1978), ai diecimila (numero considerato incredibile dai miei maestri, raggiunto all’inizio degli anni Ottanta) agli oltre 25.000 avvocati romani di oggi (250.000 in tutt’Italia).
Con questi numeri – a fronte dei giudici rimasti rigorosamente ed ampiamente al di sotto delle 10.000 unità in tutto il territorio – era inevitabile cedere il primato alla magistratura: alla quale occorre oggi riconoscere una preparazione media superiore a quella media di noi avvocati.
In effetti quando ci si imbatte in un soggetto che ha scelto l’avvocatura non come prima opzione, ma come ripiego al concorso non vinto, il danno all’immagine della professione forense è duplice. Pensate ad un avvocato che sia tale perché non è mai riuscito a vincere il concorso di magistratura ed a quale possa essere il suo atteggiamento psicologico ogni qual volta si troverà di fronte ad un giudice (non a caso la prima domanda che rivolgo a chi mi chiede di svolgere presso di me la pratica è proprio se intenda partecipare al concorso per magistrato: dando il consiglio – se la risposta è affermativa – di dedicarsi completamente allo studio per un concorso che è basato unicamente sulla conoscenza accademica del diritto).
In ciò anche la spiegazione della circostanza che, nel caso dell’Avvocatura, “il numero non è potere”. Interrogativo, questo, che fa impazzire chi fa politica forense. 250.000 avvocati non costituiscono un potere perché diversissima è la loro matrice e perché in quell’enorme cifra vi sono realtà differentissime: decine di migliaia di avvocati che hanno come unico cliente un altro avvocato; decine di migliaia di giovani che cercano un’altra strada e sono solo momentaneamente parcheggiati nell’Albo. In questi ultimi anni di crisi v’è stato un enorme aumento degli avvocati disoccupati (professionisti spesso di buona esperienza e capacità, ma che hanno perso la loro collaborazione con uno studio legale) e di quelli che, costretti a risparmiare sulle spese, non solo in provincia, ma anche in città come Roma, non hanno studio e struttura e svolgono la professione da casa.
Vedete da soli come gli interessi e le esigenze di questi sono molto differenti dalle esigenze degli avvocati che hanno avuto migliore ventura, che hanno un loro studio o sono soci dei sempre più frequenti studi associati; nonché da quell’altro piccolo esercito di avvocati che si occupa, con grande dignità e competenza, di questioni minori: alle quali spesso sono legati problemi giuridici enormi.
Ecco, trovare un tema che sia di interesse comune per una realtà così poliedrica è veramente difficile.
La mediazione obbligatoria, che un avvocato come il sottoscritto giudica un’autentica offesa ed ingiuria alla propria professionalità, per moltissimi colleghi può rappresentare (e forse rappresenta) un’opportunità. Le restrizioni degli appelli e dei ricorsi per cassazione, che per la maggioranza dei colleghi è una iattura che comporta una riduzione del loro campo di agire, per i superspecialisti delle impugnazioni sono un vantaggio.
Ho appena citato due leggi – imposte dall’alto – che incidono profondamente sul modo di essere avvocati.
La mediazione dovrebbe rappresentare una soluzione alternativa al processo. Com’è fatta in Italia non lo è: la sua obbligatorietà la renderà un’inutile ulteriore perdita di tempo e fonte di costi per chi deve rivolgersi alla giustizia. Essa – a mio avviso – risponde solamente agli interessi economici di chi ha organizzato organismi di mediazione ed è solamente un palliativo per la nostra agonizzante giustizia civile, dandogli solo qualche mese di respiro.
In realtà, storicamente, tutti i tentativi di conciliazione che l’ordinamento ha tentato di imporci sono falliti: da quello, oggi abrogato, propedeutico ai giudizi di lavoro, a quelli fatti direttamente dal giudice: che tanta di conciliare le parti, nelle questioni di famiglia; e che, in un certo tempo delle varie riforme procedurali, alla prima udienza doveva “ricercare un accordo tra le parti”.
La verità è che alle statistiche sfuggono tutti i dati relativi alle transazioni vere, quelle fatte in maniera reale, meditata e professionale dagli avvocati. Sfuggono quelle che si chiudono prima del giudizio, sfuggono quelle fatte in corso di causa, prevedendosi l’estinzione del giudizio per inattività delle parti e non per intervenuta transazione.
Così il principio obsoleto ed antieconomico del “finché dura fa verdura” che ancora ispira l’immaginario collettivo riguardo gli avvocati, non riesce ad essere smentito dai numeri. Mentre, al contrario, la realtà di oggi è dell’interesse economico dell’avvocato alla rapida definizione della controversia e, quindi, all’incasso veloce del compenso a lui dovuto.
Comunque si tratta di un istituto che incide sulla professione forense e che deve essere considerato dall’avvocato nella strategia con cui va affrontato il processo: che, ormai, ha anche quella fase pre-giudiziale, che deve essere considerato. Visto dalla parte del cittadino-utente: un altro balzello per l’accesso alla giustizia; chi può si paga l’avvocato che sa bene utilizzare lo strumento della mediazione ai fini della successiva causa; chi non può la affronta con leggerezza e ne paga le conseguenze.
Sulla professione forense – sul modo di essere avvocati oggi – incidono anche le norme che sperano di risolvere l’affollamento del secondo grado di giudizio e della giustizia di legittimità, rendendone più difficoltoso e più costoso l’accesso.
Anche questa è una riforma che deriva dal numero degli avvocati: al quale numero viene riconnesso il proliferare delle impugnazioni. Ricordo benissimo un intervento in un convegno al CNF di metà degli anni 2000 del Primo Presidente della Corte di Cassazione, Vincenzo Carbone. Questi osservava che a fronte di circa 40.000 avvocati cassazionisti e di tutti i soggetti coinvolti in procedimenti penali abilitati a proporre ricorso per cassazione anche senza patrocinio, vi fossero solo poche centinaia di giudici e lamentava che la Corte fosse sopraffatta da ricorsi completamente inammissibili, infondati, spesso fantasiosi. La sua proposta: limitare il numero degli avvocati cassazionisti: come in Francia, che è un numero chiuso (ed al quale si accede praticamente per cooptazione).
L’effetto è quello che è sotto gli occhi di tutti: l’appello ed il ricorso per cassazione sono, di fatto, se si vuole avere una qualche speranza di successo, riservati solamente a processualisti specializzati: la maggior parte degli avvocati incorre inevitabilmente nelle inammissibilità, se non addirittura nella palese infondatezza.
Tutto ciò, unito alla situazione economica nella quale l’Italia si dibatte ormai da troppi anni, comporta una crisi della professione forense.
L’avvocato di oggi – qualsiasi sia il suo livello professionale ed il target al quale si rivolge – deve ripensare e rivoluzionare completamente la sua professione.
Certo un giovane non può guardare al modello tradizionale dell’avvocato. Né la scelta – come poteva essere dalla metà degli anni Novanta fino al 2010 – è limitata al dualismo tra bottega artigiana e studio internazionale.
Entrambi i modelli sono oggi in crisi. L’avvocato-artigiano ha visto chiudersi molti spazi dal proliferare degli studi internazionali che, dopo avere eroso incarichi dalla grande industria e da enti pubblici, causa crisi, stanno invadendo anche il settore che loro definiscono litigations. Anche gli studi internazionali, però, subiscono la crisi e più o meno tutti nei tre anni trascorsi si sono in qualche modo ridimensionati. Magari favorendo anche spin-off, che danno vita ad un altro studio associato.
Dove porterà tutto ciò tra un ventennio.
Come dicevo all’inizio, non lo so.
Ho cominciato in uno studio che reputo essere stato molto più importante di quello mio. Non c’era una fotocopiatrice; i fascicoli si cucivano con lo spago; le sentenza si meditavano mesi prima di citarle in qualche comparsa.
Oggi la tecnologia impera. Gli atti si trasmettono per via telematica. Se non sai che sentenze ha pubblicato ieri mattina la Cassazione sei irrimediabilmente superato.
Si corre e si diventa sempre più superficiali: tutto ciò che è valido oggi non lo è più domani, anche i principi giuridici vengono superati e stravolti con facilità eccessiva.
Ecco se fossi giovane oggi forse prenderei a prestito una frase in questi giorni molto di moda nella politica e mi dichiarerei diversamente avvocato. Moderno ed attento a tutti i fenomeni ed alle novità, sempre aggiornato: ma forse cercherei di non essere superficiale. Convinto che la giusta maturazione dei problemi, delle cose e del proprio essere produrrà sempre una figura di ad-vocatus dalla quale non si potrà prescindere, qualsiasi sia il modello organizzativo e la struttura nella quale l’evoluzione dei tempi lo inserirà.
Tommaso Marvasi
(7 ottobre 2013)