Negli ultimi decenni la famiglia tradizionale si è profondamente modificata ponendo in discussione i pregressi modelli comportamentali ed educativi. Tali cambiamenti, unitamente alla evoluzione dei costumi ed alle innovazioni che hanno riguardato la responsabilità aquiliana ha prodotto il definitivo “arrivo” della responsabilità civile all’interno delle mura domestiche.
Il principio della c.d. immunità del diritto di famiglia dalle regole della responsabilità civile non era mai stato recepito nel nostro ordinamento, salvo per quanto previsto nell’art. 104 c.c., ove si statuisce che nel caso in cui l’opposizione alla celebrazione del matrimonio sia respinta, l’opponente potrebbe essere condannato al risarcimento dei danni. I conflitti sorti all’interno del nucleo familiare dovevano essere, quindi, risolti attraverso gli specifici rimedi del diritto della famiglia.
Il legislatore ha provveduto ad introdurre nella disciplina del diritto di famiglia alcune misure che potremmo definire risarcitorie e non riparatorie, come il risarcimento in caso di mancata esecuzione della promessa di matrimonio o l’equo indennizzo a favore del coniuge in buona fede in caso di annullamento del matrimonio: tali misure, comunque, non assurgono a funzione di ristoro di pregiudizi di carattere non patrimoniale prodotti all’interno delle mura domestiche.
Senonché la evoluzione dei costumi, come detto, che hanno trovato espressione e regolamentazione nella riforma del diritto di famiglia del 1975, hanno condotto all’abbandono del concetto di immunità nella famiglia anche nel nostro ordinamento.
I primi segnali di apertura del sistema delle relazioni familiari alla responsabilità civile sono pervenuti dalla giurisprudenza di merito, in considerazione, soprattutto, della scarsa rilevanza pratica della declaratoria di addebito della separazione e della inidoneità della stessa al fine di riparare le conseguenze negative, provocate da una condotta illecita del coniuge, nella sfera di interessi dell’altro. Tale considerazione non mutava neppure considerando la natura dell’assegno di mantenimento o di divorzio determinato dall’Autorità Giudiziaria, stante la sua natura esclusivamente assistenziale e non certo risarcitoria. Neppure le sanzioni penali sono state considerate sufficienti a tutelare il coniuge poichè non consentono una applicazione adattabile alle diverse situazioni.
I giudici hanno quindi riconosciuto ipotesi di illecito aquilano nelle relazioni familiari, nello specifico in presenza di violazione dei doveri genitoriali o di quelli coniugali. La importanza della estensione della responsabilità civile in tale ambito va indubbiamente riconosciuta, poichè costituisce espressione ed affermazione della dignità della persona contro aggressioni di fronte alle quali in precedenza non vi poteva essere alcuna difesa.
Una prima importante pronunzia della Suprema Corte è la n. 5866/95 che ha sancito la cumulabilità della declaratoria d’addebito della separazione (strumento specifico del diritto di famiglia) con il rimedio aquiliano, prevedendo l’attribuzione al coniuge, incolpevole, di un assegno di mantenimento e non il risarcimento dei danni riportati, qualora gli stessi fatti che abbiano portato alla declaratoria d’addebitabilità integrino anche gli estremi dell’illecito civile ex art. 2043 c.c.
Dalla emissione della suddetta sentenza in poi, i giudici di merito hanno iniziato a prevedere il risarcimento del danno provocato da una condotta posta in essere nell’ambito familiare, previsione confermata anche dalla Suprema Corte.
I giudici di legittimità in una fattispecie integrante ipotesi di violazione dei doveri genitoriali, hanno infatti confermato una sentenza che prevedeva la condanna di un genitore al risarcimento dei danni subiti dal figlio per il rifiuto del padre di garantire mezzi di sussistenza. Successivamente, in ipotesi di violazione dei doveri coniugali, la Suprema Corte (n. 9810/2005) ha confermato la condanna al risarcimento del danno in favore di una donna che non era stata informata dal marito della incapacità a procreare: in tale fattispecie è stato ritenuto risarcibile il danno non patrimoniale ex art. 2051 c.c. per la lesione del diritto costituzionalmente garantito alla donna a realizzare la propria personalità all’interno della famiglia, sia come madre che come moglie.
In tale quadro giurisprudenziale giungono le sentenze della Corte di Cassazione n. 8827 e 8828 dell’anno 2003 che hanno ricondotto il risarcimento del danno non patrimoniale ex art. 2059 cc, ed hanno introdotto il principio che, nel sistema bipolare del danno patrimoniale e del danno non patrimoniale, l’art. 2059 cc riveste una funzione non più sanzionatoria. L’astratta previsione normativa deve intendersi quindi come comprensiva di ogni danno di natura non patrimoniale derivante dalla lesione dei valori della persona e sia del danno morale soggettivo (consistente nella mera sofferenza psichica e nel patema d’animo) sia del danno biologico in senso stretto ( presenza di lesioni alla integrità psico-fisica secondo i canoni fissati dalla scienza medica) sia del danno derivante dalla lesione di altri interessi relativi alla persona e costituzionalmente garantiti.
Tale principio è stato confermato dalla Corte Costituzionale (233/03).
A seguito delle due pronunzie sopra citate emesse dalla Cassazione, e del principio per cui il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi previsti dalla legge ordinaria, ma anche in quelli di lesione di interesse ulteriore tutelato dall’ordinamento e di valori della persona costituzionalmente protetti, il danno intrafamiliare è entrato a pieno titolo nel dibattito sul danno alla persona.
Ai fini della operatività delle regole sulla responsabilità aquiliana è comunque necessario qualcosa “in più” rispetto ad un comportamento violante i diveri matrimoniali: che si verifichi cioè un danno ingiusto, che non necessariamente coincide con la violazione dei doveri coniugali o con la declaratoria d’addebito. La risarcibilità del danno sussiste allorquando la condotta del coniuge abbia violato non solo uno dei doveri nascenti dal matrimonio, ma abbia provocato altresì una lesione di interessi e valori tutelati dall’ordinamento.
Acquisito il concetto che nel sistema delineato nel 1975, a seguito della riforma, il modello di famiglia – istituzione (v. codice civile del 1942) è stato superato da quello di famiglia-comunità, come più volte affermato dai giudici di legittimità, attualmente la famiglia si configura come il luogo di incontro e di vita comune dei suoi appartenenti ed è riconosciuta da parte dell’ordinamento tutela della sfera individuale ed interessi di ciascuno.
La giurisprudenza della Suprema Corte ha posto in evidenza come il rapporto tra la violazione dei doveri coniugali e la responsabilità aquiliana debba essere inquadrato nel contesto del danno derivante dalla lesione di un interesse soggettivo costituzionalmente rilevante ex art. 2059 c.c., che prevede tutela risarcitoria al soggetto che abbia subito lesioni di situazioni giuridiche non patrimoniali garantite costituzionalmente: si opera in tal modo un ampliamento della risarcibilità del danno non patrimoniale.
In virtù di tale orientamento, in relazione al binomio rapporto di coniugio e responsabilità civile, i giudici di merito hanno ritenuto, ad esempio, integrante responsabilità aquiliana la violazione del dovere di fedeltà allorquando la relazione extraconiugale si svolga con modalità tali da offendere la dignità e l’onore dell’altro coniuge, ravvisando la ingiustizia del danno nella violazione dell’onore e non nella violazione del danno di fedeltà. Al riguardo la Corte di Cassazione, con la recente sentenza n. 18853 del 15 settembre 2011, oltre alla ipotesi della lesione alla “dignità” del coniuge tradito, ha fatto riferimento anche al caso in cui l’infedeltà, per le sue modalità e in relazione alla specificità della fattispecie, abbia dato luogo a lesione della salute del coniuge. Significativa al riguardo una decisione del Tribunale di Brescia, riformata in grado di appello, che aveva riconosciuto come fonte di responsabilità aquiliana nei confronti della moglie la infedeltà omosessuale del marito, ritenendo tale comportamento come lesivo della personalità della donna nella sua dignità ed esplicazione della sua personalità all’interno della famiglia.
La Corte di Appello, in secondo grado, riformava come detto la decisione, ritenendo la insussistenza di un danno ingiusto sulla base del rilievo che la relazione extraconiugale, sia essa omosessuale o eterosessuale, non è di per sè idonea a produrre lesione di interessi mutevoli di tutela.
Meritevole di esame è altresì la nuova problematica dei doveri genitoriali con specifico riguardo alla applicazione dei principi della responsabilità civile nei rapporti di filiazione, soprattutto nella ipotesi in cui il genitore li abbia trascurati, producendo al figlio un danno ingiusto.
Anche in tale ambito rilevante è stata l’opera dei giudici di merito: significativa, ad esempio una decisione in cui è stata affermata la responsabilità di un padre che si era totalmente disinteressato delle sorti, delle esigenze economiche e della vita della propria figlia naturale, in virtù del fatto che apparivano violati diritti soggettivi assoluti di rango costituzionale e che costituiva fatto illecito la totale obliterazione del ruolo paterno con omissione di ogni condotta assimilabile alla assistenza materiale e morale che ogni genitore ha nei confronti dei propri figli. Secondo tale orientamento giurisprudenziale, laddove, quindi, la condotta genitoriale sia violante di norme ed obblighi, la applicazione delle regole sulla responsabilità aquiliana consente alla prole danneggiata di ottenere un ristoro sia del danno patrimoniale che di quello non patrimoniale, intendendo compresi nel primo i pregiudizi derivanti dal non aver goduto del mantenimento, istruzione ed educazione (da liquidarsi con riguardo alle condizioni patrimoniali e sociali di ciascun genitore) e nel secondo il danno da lesione di diritti costituzionalmente garantiti.
Tra le decisioni di merito, con riferimento al risarcimento di danno non patrimoniale in tema di filiazione, è da ricordare una sentenza con cui il Tribunale di Venezia (30 giugno 2004) ha accolto la richiesta di risarcimento del danno avanzata da una figlia nei confronti del padre, riconoscendo i pregiudizi causati dal comportamento del genitore sulla base del presupposto che la mancanza della figura paterna si è manifestata in negativo nello sviluppo della personalità della figlia e nell’insieme delle scelte esistenziali della sua crescita e che era stato altresì prodotto un danno ulteriore, cioè la consapevolezza della figlia di essere stata abbandonata e rifiutata dal padre. Pertanto è stato a lei riconosciuto il risarcimento del danno esistenziale, qualificato anche quale “danno non patrimoniale non coincidente con il mero danno morale” (testuale dalla decisione).
Rilevante è anche la vicenda riguardante la condotta di una madre che in modo “ostinato, caparbio e reiterato” ha ostacolato i rapporti tra il proprio figlio ed il padre: in tal caso il Tribunale di Roma (provvedimento del 13 settembre 2011) ha ravvisato la lesione del diritto del padre alla genitorialità, garantito dagli artt. 2 e 29 della Costituzione, per, testuale dalla decisione, “non avere potuto assolvere – e non per sua volontà – ai doveri verso il figlio e per non aver potuto godere della presenza e dell’affetto del piccolo”.
La legge 54/06, riconoscendo al figlio il diritto alla bigenitorialità ed introducendo quale criterio generale l’affidamento condiviso dei figli minori in ambito di separazione legale, separazione di fatto, e di divorzio ha anche previsto con il recente articolo 709 ter cpc, al secondo comma, misure sanzionatorie e risarcitorie in caso di comportamenti gravemente inadempienti o pregiudizievoli nei confronti dei figli minori o dell’altro genitore, costituenti ostacolo al corretto svolgimento delle modalità dell’affidamento e della frequentazione di un genitore. In alcuni casi le sanzioni previste sono state disposte anche rispetto ad inadempimenti aventi ad oggetto le statuizioni di ordine patrimoniale (Tribunale di Modena del 29.1.2007; Tribunale di Padova del 3.10.2008; Tribunale di Bologna del 19.6.2007; Tribunale di Termini Imerese del 12.7.2008).
La contemporanea previsione nell’art. 709 ter cpc di misure sanzionatorie (l’ammonizione e la condanna alla pena pecuniaria previste dal n. 1 e 4 dell’articolo), e risarcitorie (a favore del figlio o dell’altro genitore previste dai num 2 e 3), ha suscitato un ampio dibattito sulla loro natura e finalità, e si continuano a registrare posizioni contrastanti sia in dottrina che in giurisprudenza.
Dall’esame della giurisprudenza di merito emergono essenzialmente due filoni interpretativi: quello che riporta il risarcimento dei danni ex art. 709 ter cpc nell’ambito della responsabilità civile e quello che invece lo ricollega al risarcimento dei danni c.d. punitivi.
Secondo quest’ultimo orientamento (consacrato in una pronuncia emessa dal Tribunale di Messina il 5 aprile 2007), i provvedimenti previsti dall’art. 709 ter costituiscono misure “coercitive indirette”, non inquadrabili nel sistema previsto dagli artt. 2043 e 5059 cc, bensì introducono misure (“danni punitivi”) simili a quelli dell’ordinamento anglosassone, sanzioni cioè inflitte all’autore di un comportamento illecito dirette a punirlo, al fine di dissuadere chi ha commesso gli illeciti, dal commetterne ancora.
Modello di danno punitivo è l’astreintes, forma di coercizione indiretta consistente in una somma da pagare da parte del debitore inadempiente qualora questo si rifiuti d’ottemperare all’ordine del giudice di eseguire la prestazione dovuta (meccanismo simile nel nostro ordinamento è previsto dall’art. 614 bis cpc, la c.d. “coercizione indiretta”). Ulteriore simile modello è l’istituto statunitense dei primitive damages.
Di segno opposto è l’orientamento che qualifica il danno di cui si è chiesto il risarcimento ex art. 709 ter cpc (ad esempio, patito sia dal figlio per la privazione della frequentazione del padre, che dal genitore privato della possibilità di mantenere un sano ed equilibrato rapporto con la prole) come danno non patrimoniale da ricollegare al sistema risarcitorio ex art. 2059 cc.
La giurisprudenza italiana, sul punto, anche di recente, aveva ribadito la totale estraneità della forma di “danno punitivo” nel nostro ordinamento, ritenendola addirittura idonea a confliggere con l’ordine pubblico interno. La Cassazione, nella sentenza n. 1183 del 19 gennaio 2007 emessa dalla Terza Sezione Civile, ha espressamente sostenuto che “nell’ipotesi di danno morale l’accento è posto nella sfera del danneggiato e non del danneggiante: la finalità perseguita è soprattutto quella di reintegrare la lesione, mentre nel caso dei punitive demages non vi è alcuna corrispondenza tra l’ammontare del risarcimento e il danno effettivamente subito. Nel vigente ordinamento l’idea della punizione e della sanzione è estranea al risarcimento del danno…”.
E’ quindi difficile ipotizzare la introduzione nel nostro ordinamento dell’istituto del “danno punitivo” che potrebbe essere concepito solo ove vi fosse una normativa che lo preveda, requisito che all’interno dell’art. 709 ter cpc risulta essere assente; si è anche sostenuto che se da un lato l’ordinamento richieda la espressa previsione di legge per il risarcimento del danno non patrimoniale, dall’altro non si può enunciare un rinvio generico al risarcimento per comminare un danno punitivo, per il quale le esigenze di tassatività dovrebbere essere più sentite.
La liquidazione del danno non patrimoniale. Nella liquidazione del danno non patrimoniale conseguente all’illecito intrafamiliare viene considerato l’elemento soggettivo del dolo del responsabile; è evidente che se viene accertata una condotta caratterizzata da dolo o colpa grave, il giudice valuta il pregiudizio subito dal danneggiato nonché l’entità dell’elemento soggettivo. Per tale ragione, una volta accertato l’illecito intrafamiliare, spesso si perviene a risarcimenti del danno alquanto elevati: ad esempio la Corte di Appello di Bologna (decisione del 10 febbraio 2004) ha confermato la sentenza di condanna di un genitore che si era sempre disinteressato del figlio, a risarcire a questo ultimo una somma pari a circa un milione di €, liquidata a titolo di danno patrimoniale e non patrimoniale. In un caso analogo il Tribunale di Venezia (30 giugno 2004) ha liquidato il danno morale per violazione di obblighi familiari, nella somma di 80.000,00 euro, mentre il danno esistenziale – qualificato anche come “danno non patrimoniale non coincidente con il mero danno morale” – è stato liquidato in 50.000,00 euro. Il Tribunale di Monza (5 novembre 2004) ha condannato il genitore affidatario che aveva ostacolato i rapporti tra il figlio e l’altro genitore a risarcire a questo ultimo la somma di 50.000,00 euro, medesima somma a cui è stata condannato il genitore “ostativo” nella sentenza riportata ed emessa dal Tribunale di Roma il 13.9.2011.
Ed ancora, la Corte di Appello di Roma, il 14 giugno 2011, ha condannato un coniuge al risarcimento di una somma pari a 40.000,00 euro per i “comportamenti immorali e prevaricatori” assunti nei confronti del coniuge. Merita di essere altresì ricordata la decisione della Corte di Appello di Palermo che il 20 febbraio 2007, quale giudice di rinvio, ha condannato il coniuge che, prima delle nozze, non aveva informato l’altro della propria incapacità coeundi, a risarcire la somma di 200.000,00 euro a titolo di danno non patrimoniale.