Il codice deontologico forense introdotto nell’ordinamento a seguito di delibera del Cnf, delegato dalla legge di revisione della professione legale, ha il pregio di rivendicare al ceto forense il ruolo della tutela dei diritti che, nell’immaginario sociale, è riservato all’ordine giudiziario.
L’articolo 1 è esplicito in merito a tale funzione, esclusiva nella tutela dei diritti in materia civile, integrativa del contraddittorio dibattimentale in materia penale, comunque impegnativa per giudici e avvocati, essendo previsto che il mandato difensivo consista nella libertà, inviolabilità ed effettività dell’esercizio del diritto e che l’avvocato debba “assicurare” nel processo la regolarità del giudizio e del contraddittorio.
L’assicurazione richiesta all’espletamento del mandato implica che l’interlocuzione dell’avvocato con il legale di controparte e con il giudice non si esaurisca nella partecipazione formale al giudizio, ma si esprima con vigore, competenza ed efficacia nel contraddittorio. Beninteso, la rivendicazione del principio non è innovativa. L’ordinamento giuridico romano già riconosceva all’avvocato la funzione propulsiva ed effettiva della difesa (da mihi factum dabo tibi jus).
L’esplicitazione è destinata a sostenere le ragioni dell’avvocato impegnato nel processo in quanto rappresentante di un ordine, oltre che di un ceto, la cui attività è ineludibile a fini di realizzazione dell’ordinamento e di assicurazione della pace sociale mediante la difesa della fattispecie concreta. La dichiarazione di principio deve, quindi, essere intesa quale norma precettiva vera e propria, destinata a valere nel rapporto tra avvocati e tra avvocati e magistrati, oltre che nell’ambito del rapporto di mandato, rispetto al quale la valenza normativa del codice dovrà, tuttavia, essere precisata in corso d’opera.
A mero titolo esemplificativo, la normativa sulla valutazione pregiudiziale del contenzioso e del compenso richiede approfondimento, chiarimento e, molto probabilmente, integrazione, quanto meno rispetto al compenso commisurato sul risultato dell’opera prestata. E’ noto che il divieto del patto di quota lite ha subito alterne vicende nel corso delle ultime legislature. Dapprima vietato, è stato ammesso e in seguito nuovamente vietato. Il codice deontologico riflette la normativa, prevedendo che il compenso non possa essere concordato in ragione del successo né in tutto, né in parte, diversamente che in altri paesi dell’Unione Europea e negli Stati Uniti dove il success fee è abituale.
Tra l’altro, le corti di merito avevano riconosciuto nelle vigenza della precedente normativa (ripristinata) che il palmario potesse essere concordato, ad integrazione della tariffa, in una certa ragione della liquidazione acquisita tramite l’esercizio del mandato difensivo. Costituisce, inoltre, esperienza comune degli avvocati che la clientela insista per un accordo basato sul success fee, offerto talvolta, quando sia ritenuto incerto l’esito della lite ovvero quando le condizioni economiche della persona o dell’impresa assistita non consentano l’approntamento di spese in conto, in misura esagerata.
La rinnovazione del processo legislativo sul tema specifico sembra, pertanto, dovuta, quanto meno a tutela della clientela che diversamente sarebbe costretta a rinunciare. Nel frattempo, potranno essere valorizzati i precedenti in materia.
Nicola Scu