al Convegno “ATTO D’AMORE” del 9 luglio 2012
organizzato dall’Associazione Forense Emilio Conte in collaborazione con il Movimento Forense
Con il patrocinio del Consiglio Nazionale Forense e dell’Istituto di Studi Giuridici del Lazio “Arturo Carlo Jemolo”
E vissero per sempre felici e contenti. E’ l’ultima riga delle favole dove, dopo mille peripezie, tutto finisce nel migliore dei modi: con lui e lei che s’incontrano, s’innamorano, si sposano, mettono al mondo tanti bambini e giurano di volersi bene per il resto della vita. Nelle fiabe l’atto d’amore è perfetto e completo, perché lui e lei non deludono, col passare del tempo sono sempre più uniti, non cambiano mai. Nella realtà le cose sono un tantino più complicate, perché la realtà della vita è fatta di cambiamenti, di sconfitte, di incomprensioni, di ipocrisie, di tradimenti.
A chi mi chiede: come sta la famiglia? sono solito rispondere: male, grazie. Anzi malissimo. I giornali sono pieni di sbrodolate sociologiche sulla sua lenta e inesorabile disgregazione, sulla trasversalità della crisi coniugale che attraversa tutte le categorie sociali, sui segnali negativi dovuti allo sfaldarsi del ruolo della figura paterna, sui figli drogati o affetti da bullismo, sulle figlie in perenne conflitto con le madri e che non disdegnano di riciclarsi in immagini hard sui cellulari dei compagni di scuola. Negli ultimi dieci anni separazioni e divorzi sono quasi raddoppiati. Gli ultimi dati forniti dall’Istituto Centrale di Statistica mostrano che c’è un vertiginoso aumento delle separazioni e dei divorzi, che il tasso di nuzialità va progressivamente diminuendo e aumentano le convivenze. Per motivi economici innanzitutto, perché in tempo di crisi anche sposarsi è un lusso. Qualcuno ha calcolato che la durata media della vita coniugale è scesa a quindici anni, e poi addio, ognuno per la sua strada. Per un insieme di fattori: la crescita dell’occupazione femminile, l’esplosione di una maggiore conflittualità tra coniugi, la difficoltà a investire sul proprio futuro, l’incapacità di affrontare le difficoltà della vita a due. La famiglia di tipo tradizionale, quella stile Mulino Bianco per intenderci, è in crisi perché sono in crisi i coniugi. Le coppie felicemente sposate sono una minoranza, una specie in via di estinzione. Si ripete che non si sa più amare, non si riescono più a vivere i propri sentimenti e le proprie emozioni. Stando alle cronache non solo giudiziarie, i mariti non capiscono le mogli, le mogli disprezzano i mariti, entrambi ignorano i figli, che a loro volta guardano i genitori come se fossero strani pesci esotici confinati in un acquario. Di qui litigi, incomunicabilità, sopraffazioni. Ed è solo l’inizio.
Presto, vedrete, se ne discuterà a Porta a porta. La trasmissione di Bruno Vespa affronterà il tema “Quale famiglia?” e a confrontarsi (ci puoi scommettere) saranno Flavio Briatore e Elisabetta Gregoraci, Niky Vendola e il suo compagno, Fabrizio Corona e la sua ex Belen Rodriguez, il Trota e Nicole Minetti, l’olgettina consigliere regionale in Lombardia.
Questo desolante quadro è aggravato nel nostro Paese dalla presenza di una marea di sedicenti difensori della famiglia. Padossalmente, la battaglia in nome dei sacri valori del matrimonio e della famiglia è combattuta in Italia da un folto esercito di concubini, separati, divorziati, fedifraghi, traditori, stalkers e maniaci sessuali. Il modello familiare tradizionale – l’uomo responsabile dall’esterno (il lavoro e il guadagno) e la donna dall’interno (la casa, la cura della famiglia) – è stato messo fortemente in discussione. Soprattutto dalla donna, che ormai lavora fuori casa non solo per necessità, ma anche e soprattutto per realizzarsi.
C’è da dire che la famiglia è in crisi anche all’estero. In America e in Gran Bretagna soprattutto, dove la famiglia felice ha lasciato da tempo la tv. Alla famiglia borghese di Happy Days (gli Howard, padre, madre e due figli Richie e Joanie, con Fonzie che faceva la parte di un meccanico rubacuori con un tocco di capelli alla James Dean) sono subentrate negli anni ‘80 Dynasty, Beautiful, Dallas, famiglie arroganti, spavalde, rampanti dove ci si scala in famiglia come nella Borsa di New York.
L’aspetto più paradossale del matrimonio di oggi è che dura meno del fidanzamento. Almeno a giudicare dalle vicende di tanti figli di miei amici. Giovani che amoreggiavano dai tempi del ginnasio e portavano avanti la loro storia da dieci, quindici anni prima di sposarsi. Passando le vacanze insieme, andando al cinema e a teatro, facendo l’amore come e quando capitava, litigando e facendo pace come tutte le coppie di questo mondo. La sera tornavano ognuno a casa propria. E tutto andava bene. Poi si sono sposati, con tutto ciò che comporta l’organizzazione di un matrimonio: l’ossessione dell’abito da sposa, i tira e molla sugli invitati, il terrore della pioggia, la scelta della chiesa, l’incubo dei cartoncini, il catering, la torta multipiano. Una trafila infernale. Finalmente i due sono arrivati all’altare, hanno promesso davanti a Dio e agli uomini di far durare il matrimonio finché morte non li avrebbe separati, e sono andati ad abitare sotto lo stesso tetto. In capo a tre anni si sono separati. Dalla crisi del settimo anno si è passati a quella del terzo anno: come se i due avessero esaurito nella loro adolescenza prolungata tutto ciò che avevano da dirsi e da fare insieme.
Sulla crisi del matrimonio è stato detto e scritto tutto, dalla fatale progressiva usura della convivenza al suo opposto, la fatale indifferenza reciproca di coloro che vivono in ambienti diversi, ciascuno con i suoi problemi di lavoro e le sue amicizie e si ritrovano la sera a casa come due estranei che scoprono di avere poche cose in comune, all’infuori delle rate del mutuo e delle bollette da pagare. Ma anche l’iperconvivenza è un male, i coniugi siamesi come li chiama qualcuno, quelli che stanno sempre insieme a stretto contatto di gomito, che vivono l’uno per altra, senza scambi, senza potersi sfogare con nessun altro se non con se stessi, inesorabilmente vicini e incombenti. L’idea dei “due cuori e una capanna” è tramontata da tempo, spazzata via dalle verifiche economiche e sociologiche. Solo qualche isolato e ingenuo romantico continua a ripetere, prima di tutto a se stesso, che i soldi con l’amore non c’entrano niente e che la passione è solo un ticket di un parcheggio a tempo.
Per realizzare un buon matrimonio bisognerebbe proporre forse un matrimonio con data di scadenza, come il latte, o a tempo, come il timer di una bomba. Poiché l’affaticamento di una coppia arriva spesso anche prima del tradizionale settimo anno, tanto varrebbe far scadere automaticamente il matrimonio all’anniversario del quinto anno. Proprio come un contratto di affitto: dopo cinque anni si sfratta il coniuge per scaduta locazione. Senza chiacchiere e costi aggiuntivi. Naturalmente se i due vogliono rinnovare il contratto, sono liberissimi di farlo.
Mia moglie è solita ripetere spiritosamente agli amici che il segreto del nostro lungo stare insieme (siamo sposati da quasi 45 anni) non é un segreto. E spiega: Io – dice – sono un donna capace di perdonare. Molto, molto tempo fa ho perdonato a mio marito di non essere George Clooney.
Sinceramente non credo che io e mia moglie rappresentiamo un’eccezione. Ma è certo che oggi esistono nuovi modelli di coppia, nuove dinamiche familiari. Coppie part-time, coppie aperte, coppie a distanza. Vite parallele sotto tetti diversi. Due cuori e due capanne. Per necessità. Per amore di libertà. Perché non si crede al matrimonio e alla famiglia. Perché molte coppie sono allergiche all’idea di prendere in considerazione una convivenza. Vogliono coltivare in autonomia i propri gusti, essere indipendenti, non solo economicamente. Perché hanno acquisito abitudini ormai consolidate nel tempo e non se la sentono di cambiare stile di vita, formare nuove amicizie in comune. Entrambi soddisfatti del lavoro e della loro cerchia di amici, intrattengono rapporti rarefatti, si vedono quando possono e quando vogliono, senza regole etiche e sociali. Nei week-end o via Internet. Non amano la vicinanza, che è invece uno degli ingredienti che contribuiscono a costituire di regola una buona intimità. A loro dei Pacs, dei Dico o dei Cus non gliene po’ fregà de meno. C’è chi parla al riguardo di “sindrome del marinaio”. Living apart together (L.a.t., cioè vivere separati ma insieme) sono state battezzate queste nuove coppie utilizzando una formula in vigore negli Stati Uniti.
Al di là di certe analisi sociologiche è un dato che spesso non ce la si fa più a continuare a vivere con la stessa persona. Anche quando, sposandosi tanti anni prima, si era giurato di amarla per tutta la vita. Anche quando la volontà di costruire una famiglia stabile e durevole c’era tutta. Allora perché non separarsi e non divorziare? Perché trascinare ostinatamente un’unione che non c’è più e rovinare tutto, anche i ricordi più belli della vita in comune?
Sono tanti i temi sul tappeto affidati in questo incontro a tanti illustri relatori. Abbracciano un arco di 360 gradi della crisi familiare: si va dal ruolo dell’avvocato nel diritto di famiglia ai risvolti più squisitamente economico-patrimoniali, dalle non poche criticità emerse sull’affidamento condiviso ai profili strettamente penali, dal regime delle nullità matrimoniali alla modifica delle condizioni della separazione, fino alla funzione che è tenuta ad adempiere la consulenza tecnica di ufficio nel processo civile della famiglia.
Io desidero soffermare la mia attenzione solo su un aspetto recentissimo delle riforme del processo, scusandomi con l’uditorio se lo intratterrò ancora per qualche minuto, trasformando quello che doveva essere un semplice indirizzo di saluto in una sia pur breve relazione.
Il 21 giugno scorso è stata una data importante per l’Europa delle persone. Mentre l’Europa dei denari arranca tra angosce e speranze, l’Europa dei cittadini avanza, perché da quella data in 14 Stati dell’Unione Europea, tra i quali l’Italia, è efficace il Regolamento europeo n. 1259/2010 sulla legge applicabile al divorzio. Di che cosa si tratta è presto detto. A partire dal 21 giugno i coniugi – già al momento del matrimonio possono fare un patto con cui scelgono la legge che sarà applicabile al loro eventuale futuro divorzio. Gi effetti pratici saranno immediati. Si assisterà sicuramente a una fuga dalla legge italiana, visto che, com’è noto, l’Italia è uno degli Stati in cui i coniugi che non vanno d’accordo sono costretti ad aspettare tre anni dal momento in cui il giudice li ha autorizzati a vivere separati prima di ottenere il divorzio. La possibilità di scegliere che il giudice italiano applichi una legge straniera per pronunciare il divorzio è, al momento, possibile solo quando uno dei due coniugi ha una cittadinanza straniera oppure quando i coniugi, entrambi italiani, sono o sono stati, anche per un periodo molto breve, residenti all’estero.
Non è difficile immaginare che questa possibilità sarà sfruttata anche da quei coniugi che, pur essendo entrambi italiani e da sempre residenti in Italia, vorranno divorziare subito: basterà accordarsi per prendere una residenza per un breve periodo in uno Strato che ammette il divorzio immediato.
Ho voluto richiamare questo Regolamento per far riflettere sull’opportunità di abbreviare i termini per ottenere il divorzio in base alla legge italiana. Proprio in questi giorni si sta discutendo di una proposta di “divorzio breve” che punta a ridurre il tempo necessario per sciogliere definitivamente il vincolo matrimoniale. Il testo base è quello della proposta Paniz che riduce dagli attuali tre anni a un solo anno l’intervallo necessario per chiedere in modo consensuale il divorzio. Intervallo che raddoppierebbe a due anni se sono presenti figli minori.
So che la proposta del divorzio breve non incontra molti favori (conosco il pensiero in proposito dell’avvocato Giorgio Vaccaio, che è decisamente contrario a questa proposta, sulla base di argomentazioni che peraltro condivido appieno perché attengono al tempo di maturazione della libertà della scelta di divorziare e al rischio di paralisi dei tribunali). Mi permetto solo di sottoporre alla vostra riflessione che il divorzio breve avvicina l’Italia alle altre legislazioni europee in materia di diritto di famiglia. In Francia, per sancire la fine di un’unione bastano dai tre ai sei mesi, in Germania tutto accade dopo un anno, e per giunta senza più tornare davanti ai giudici. Il divorzio è automatico. Divorzi sprint si rinvengono anche in Grecia, in Romania e nella cattolicissima Spagna, dove bastano sei mesi per dirsi addio.
La novità del Regolamento europeo cambia un po’ le carte in tavola. Che senso ha questo dibattito sulla durata dei tempi del divorzio – mi chiedo – quando due coniugi italiani possono ora ottenere da un giudice italiano la pronuncia del divorzio immediato, semplicemente fissando per qualche mese la residenza all’estero?
Tralascio la straordinaria novità (una vera e propria rivoluzione culturale), costituita dalla previsione di patti prematrimoniali sull’eventualità di un futuro divorzio. Nel diritto di famiglia italiano questo tipo di patti è stato sempre considerato un’americanata, una cosa da personaggi hollywoodiani: roba da Catherine Zeta Jones e Michael Douglas, che stabiliscono preventivamente quando uno deve dare all’altro in caso di future corna. Adesso scopriamo invece che anche l’Europa giudica naturale stipulare patti in vista di un futuro divorzio. Dobbiamo prenderne necessariamente atto.
Su altri versanti, anche se con molta cautela, è difficile non prender atto che divorziare significa riconoscere che la vita in comune non è più possibile. La decisione di divorziare è espressione di una rottura, della fine di una storia d’amore. Spesso l’amore è finito da tempo e il divorzio è un atto puramente formale. Le ricomposizioni tra ex sono estremamente rare. Quando si arriva alla separazione, quando si bussa alla porta dell’avvocato, difficilmente si torna indietro. Una pausa di riflessione di tre anni, anche in presenza di figli minori, è francamente un po’ lunga, tanto più che questa lunga pausa di meditazione non serve certo a rincollare i cocci di un amore ormai finito, ma può anzi protrarre un terreno di scontro infinito, una guerra dei trent’anni in cui ognuno resta prigioniero dell’altro, con i figli che si trasformano in “migranti” dell’affido condiviso.
Mi fermo qui perché non voglio abusare oltre della vostra pazienza. Un saluto cordiale e affettuoso a tutti i relatori, scusandomi ancora una volta per questa lunga chiacchierata, ma i temi sono appassionanti e intriganti ed è facile quindi lasciarsi prendere la mano.