E’ di pochi giorni fa la notizia dell’ennesimo omicidio di una donna commesso dal convivente: una ragazza di soli venti anni, strangolata in casa e gettata tra i rovi di una strada di campagna.
Dalle testimonianze, sembra che i litigi all’interno della abitazione erano frequenti, e che spesso si sentivano le urla della donna, anche se la stessa continuava a mantenere in vita un rapporto sentimentale dal quale, invece, avrebbe dovuto fuggire: continuava a rientrare in casa ogni sera, ad ubbidire al suo uomo ed alle sue intimazioni, sicuramente non si negava nemmeno nei rapporti intimi.
E, soprattutto, nessuno ha mai saputo quale dramma stesse vivendo Vanessa: lei, silenziosamente, andava avanti con il suo terribile segreto.
L’ultima indagine Eurispes sui delitti in famiglia conta 235 omicidi consumati tra le mura domestiche nel biennio 2010-2011 (122 nel 2009 e 113 nel 2010). Una media di 10 al mese.
Così come, nel 2012, le donne scomparse sono già decine e decine, e -per alcune di esse- è fondato il sospetto che siano rimaste vittima di omicidio per mano del marito o del convivente.
La violenza domestica costituisce uno dei principali problemi della società moderna: essa rappresenta la più grave forma di degenerazione umana, perchè viene perpetrata CONTRO e Da persone che si vorrebbero unite da una comunione spirituale ed affettiva.
Nella maggior parte dei casi, le vittime sono le donne ed i bambini, ed i costi sociali di una simile problematica risultano essere estremamente alti: infatti, vengono coinvolti TUTTI gli ambienti del vivere sociale. Non soltanto la CASA FAMILIARE (dove la violenza, effettivamente, ha origine ed ha il suo campo di azione, se vogliamo, “privilegiato”), ma viene coinvolta la scuola, l’attività lavorativa, le relazioni interpersonali.
Il problema non riguarda solo le classi cosiddette “indigenti”: al contrario, si constata che, sempre più spesso, il fenomeno di manifesta nei ceti medio/alti, ovvero economicamente agiati.
Ciò fa comprendere quanto si tratti di una vera e propria piaga sociale.
Seppur per secoli sottovalutato (anche in ragione dei fortissimi retaggi di una cultura –ancorchè di antichissima memoria- che, non dimentichiamolo, riteneva ammissibile lo “ius vitae ac necis”), il tema è, fortunatamente, da tempo al centro di studi (sia sul piano giuridico, sia sul piano psicologico e sociologico), ed ha conosciuto un rilevante livello di interesse ed attenzione soprattutto nel mondo anglosassone.
In termini generali, si definisce VIOLENZA DOMESTICA “ogni forma di lesione alla integrità psicofisica arrecata nell’ambito dei rapporti di famiglia”: autore della violenza è il partner intimo della vittima, ovvero un altro componente comunque vicino al nucleo familiare, ed è per tale perversa caratteristica che viene affiancato l’attributo “domestica”, pur se le violenze si manifestano in luoghi diversi dalla abitazione e con modalità disparate.
Negli ultimi anni -e questo è sicuramente un dato consolante- la comprensione del problema (delle sue cause e dei suoi effetti) ha fatto notevoli “progressi”: si è visto il sorgere di numerose associazioni in difesa delle vittime (sia a livello istituzionale, che a livello locale con forte attenzione al territorio), vi è stata una notevole sensibilizzazione anche da parte della Autorità Giudiziaria e -conseguentemente- della giurisprudenza, e -soprattutto a livello internazionale- si è valutata la fortissima necessità di trovare “una soluzione” al problema.
Vi è stato in questo senso una sorta di “sinergia” tra coloro che avevano ben chiara la consapevolezza del dilagare del fenomeno, e le vittime della violenza: cosicchè si è potuto assistere ad una attività aiuto morale e materiale in favore delle vittime, che ha avuto come effetto l’aumento delle denunce. E, pur se tale risultato può sembrare insignificante al fine di una tangibile modificazione di una realtà penosa, ciò è –al contrario- un traguardo insperato: già, perché problema nel problema è proprio il “comportamento” della stessa vittima, la quale il più delle volte –in un circolo vizioso di patologica omertà- evita di esporre a terzi il proprio dramma (sia per il blocco psicologico che le proviene dalle intimidazioni e dalle minacce subite, sia per la vergogna di vedersi ulteriormente giudicata, sia per quel meccanismo imponderabile che scatena il processo di rimozione del problema, sia per la paura di non sapere che ne potrà essere della vita futura).
Si deve tristemente constatare che colei che arriva alla denuncia è già “un bel pezzo avanti” in quel percorso di riappropriazione della personale dignità e di emersione dello spirito di conservazione e sopravvivenza: percezioni che -al contrario- sono state fortemente provate dalle vessazioni subite.
Ben vengano, quindi, giornate di studio del problema, ben vengano associazioni composte da esperti professionisti in aiuto delle donne (e, comunque, in generale delle vittime) colpite da tale dramma, ben venga l’aggiornamento e la trattazione dell’argomento: ove ciò non fosse, significherebbe mettere la “mondezza sotto il tappeto” e non dar modo a coloro che non sanno (o che non vogliono sapere) di conoscere la sofferenza di tante donne e di tanti bambini.
Da alcuni studi svolti, si è arrivati a constatare delle percentuali inquietanti: le vittime di tale fenomeno arrivano ad essere -a seconda dei Paesi- dal 20 al 50% dei componenti femminili nelle famiglie.
Ci si deve, inoltre, convincere che le donne ed i bambini hanno diritto ad una protezione, direi, privilegiata da parte dello Stato: bisognerebbe, pertanto, riuscire a definire la fattispecie come una specifica ipotesi di reato (e non, come attualmente, ricondurla nel più ampio concetto di “maltrattamento in famiglia”), e dando a tale crimine la giusta collocazione: sia in termini di reato contro la persona, sia in termini di aggravanti, sia in termini di pena prevista, sia in termini di limitazione della libertà da parte del soggetto riconosciuto come colpevole, sia in termini di assicurazione sulla certezza e sulla esecuzione della pena stessa.
Purtroppo, tuttavia, spesso la “violenza domestica” contro la donna non viene riconosciuta: questo “vuoto legislativo” non permette di verificare gli effetti dannosi che, invece, in termini psicologici (quando non fisici) sono stati ben accertati e definiti.
Essa, infatti, richiama in causa diversi interventi: di tipo sanitario, di tipo psicologico, sociale, economico, legale, soprattutto di sviluppo e diritti umani.
La semplice consapevolezza della sua esistenza, purtroppo, serve a poco, perché le “sfaccettature” con le quali si manifesta il fenomeno, sono diverse e –oserei dire- fetenti e subdole:
- maltrattamenti fisici (schiaffi, percosse, sino ad arrivare all’accoltellamento, al soffocamento, alle bruciature);
- vessazioni sessuali (costringendo al rapporto intimo tramite minacce e intimidazioni);
- vessazioni psicologiche (volte ad intimidire e perseguitare, esternandosi in vere e proprie minacce -tipica è quella dell’allontanamento dei figli);
- vessazioni economiche (il rifiuto di contribuire finanziariamente, sino alla privazione del cibo);
- atti di omissione (ad esempio, la totale incuria della prole anche in quei casi di handicap fisico).
Le origini di tali comportamenti sono difficili da comprendere: gli studi sulla mente umana sono, in ogni caso, andati avanti e proprio per questo NON SI PUO’ più omettere di constatare il problema.
Certo, tanto è stato fatto (si pensi alla legge 154/2001 che ha dato vita alla possibilità di richiedere l’ordine di protezione, ovvero alla più recente previsione del reato di “atti persecutori”), riguardo al , riuscire a dare realizzabilità alle sanzioni previste dalla –ancorchè povera- legislazione vigente: ma è una mediocre consolazione.
… Egoisticamente vado a pensare che se lo stato limitasse l’impiego delle Forze dell’Ordine nelle intercettazioni, o se le Procure si interessassero di meno alle vicende di una Ruby qualsiasi, tante donne “normali” si salverebbero: spesso accade, infatti, che –dopo la tragedia- si scopre che la vittima aveva presentato diverse denunce, ma che le stesse non hanno prodotto alcunchè per “mancanza di agenti”.
Mi rendo conto di aver fatto una dichiarazione “imbarazzante”, ma mi prendo tutta la responsabilità per quanto ho detto: perché sin troppo spesso mi sono imbattuta in una inerzia del genere, e sin troppo spesso mi sono sentita frustrata per non essere stata in grado di ottenere –con l’urgenza necessaria- quei provvedimenti di EFFETTIVA protezione della vittima di violenza.
Effetto, se vogliamo, ancora più dannoso per le vittime di violenza domestica, è la cosiddetta “violenza assistita”.
E’, questo, un fenomeno non soltanto ancora poco studiato, ma -soprattutto, poco conosciuto.
Con tale espressione si indicano quegli atti di violenza (fisica, psicologica, sessuale ed economica) COMMESSI SU FIGURE AFFETTIVE DI RIFERIMENTO: il bambino ASSISTE, appunto, a tali episodi, rispetto ai quali produce “esperienza” e a causa dei quali patisce degli effetti DISASTROSI.
Tale fenomeno è una forma di maltrattamento ancor più grave -ove possibile- della violenza sulle donne: ancorchè subito “de relato”, ingenera nei confronti del bambino una devastante sensazione di paura (per se stesso o per la incolumità delle proprie madri), ma -soprattutto- un senso di impotenza o di incapacità difficile da sostenere. Inoltre, ove non controllato, produce una sorta di comportamento emulativo da parte del bambino, capace di trasformarlo un adulto violento (in ragione del clima vissuto in età infantile e, quindi, di quella sorta di “imprinting” rispetto al quale nessuno ha insegnato condotte diverse).
Non ho la specializzazione tecnico/scientifica per dibattere sugli effetti psicosociali che colpiscono i bambini vittime di violenza assistita: conosco il fenomeno, ma tengo le mie informazioni quale ricchezza per le necessità proprie degli interventi legati alla mia Professione.
Ma vorrei porre l’accento su ciò che potrebbe essere un (ancor più) serio problema, dovendo trattare un procedimento per separazione tra coniugi: il contenzioso giudiziale, ribadisco, rappresenta –nella contestualizzazione di tali fenomeni- una tappa “successiva” e, paradossalmente, uno dei momenti di maggior appropriazione di se stessi.
Tuttavia, il problema si pone nei casi affidamento dei figli.
Non sto qui a commentare le statuizioni relative all’affidamento condiviso (talvolta, tuttavia, disposto senza le necessarie indagini al fine di valutare la esatta percezione del problema), tuttavia, mi vorrei soffermare su quelle situazioni nelle quali è lo stesso figlio che si rifiuta di frequentare l’altro genitore.
Spesso si parla di sindrome di alienazione genitoriale.
Spesso, la sindrome di alienazione genitoriale (che sappiamo essere quella forma di condizionamento di un genitore nei confronti del figlio minore al fine di convincere lo stesso a non avere considerazione dell’altro genitore, quello che si vorrebbe -appunto- alienare) esiste, ed è drammatica per il genitore alienato.
Talvolta, però, non si tratta di questo.
Può capitare che quei bambini vittime di “violenza assistita”, rifiutino categoricamente di frequentare il genitore da loro visto come il carnefice (normalmente) della madre: tale rifiuto non è in alcun modo condizionato dalla madre, la quale -peraltro- ha già del suo da dover superare, ma -al contrario- è frutto di una spontanea consapevolezza del bambino a non avere rapporto con l’uomo che ha fatto piangere la loro madre.
E’, questo, un problema serissimo: sia perchè, spesso, non viene considerato come dovrebbe sul piano della importanza, sia perchè -ahimè- talvolta trattato male dagli stessi addetti ai lavori ( assistenti sociali, gli avvocati, i ctu).
Ancora una volta, consapevolmente, mi prendo ogni responsabilità che dovesse derivare da quanto sto per dire.
Non potrà essere il semplice incontro a “risolvere”, ma è necessario attivare una serie di indagini a tutto campo al fine di valutare, esaminare, trattare, capire, definire e (si auspica, e sinchè si è in tempo) per arrivare –appunto- a risolvere.
Per quanto mi riguarda, il mio monito non può che rivolgersi agli Avvocati: da sempre parlo di specifica competenza degli Avvocati che affrontano cause in materia di famiglia.
In questo tipo di controversie (che sorgono da situazioni difficilissime, peraltro radicate da chissà quanto tempo, nei quali i soggetti sono fragilissimi), mi permetto –anzi, ne sollecito la necessità- di parlare di specializzazione.
Perché un Avvocato che sceglie di affrontare una difesa (dall’una o dall’altra parte) in giudizi del genere, non potrà affrontare la stessa con superficialità: sono storie che ti straziano l’anima, dove si diventa protagonisti di vite in gioco, dove le responsabilità di ogni operatore si triplicano per la delicatezza della materia, e –soprattutto- per lo specifico oggetto di questa materia.
Sono giudizi nei quali si rimane coinvolti, ma bisogna avere la capacità di non arrivare stravolti: si deve mantenere il sangue freddo ed avere ben chiari i doveri del ruolo che si sta avendo, nel rispetto di ogni regola di etica e di morale.
E bisogna insistere. In difesa dei soggetti deboli, vittime di una ferocia incomprensibile e disumana.