Valori sportivi ed etica cristiana

Per chi occupi ruoli di responsabilità nell’ambito di una qualsiasi organizzazione sportiva (tanto più se appartenente al mondo istituzionale del CONI e delle Federazioni Sportive Nazionali), ed in particolare per chi si rivolga ai settori giovanili del mondo sportivo, vi è una domanda ineludibile da porsi.


Soprattutto alla luce della correttezza dimostrata dagli atleti professionisti durante gli Internazionali d’Italia di tennis del Foro Italico da poco conclusi; una correttezza comportamentale che si basa su regole condivise ma soprattutto su una “deontologia” sportiva nata assieme al tennis ed immanente allo stesso.
E’ ancora possibile conciliare lo sport – come oggi viene vissuto e percepito dai più – con l’esigenza di fornire ai giovani, grazie proprio alla pratica sportiva, un percorso di maturazione che non sia esclusivamente mirato al raggiungimento a tutti i costi del “risultato agonistico” ma che privilegi una equilibrata formazione della propria personalità ?
La risposta dovrebbe andare oltre una frettolosa affermazione positiva ad uso e consumo del “Circo Barnum” dell’informazione massmediatica e presupporre, invece, un’attenta analisi del fenomeno sport inteso proprio come “aereopago moderno” (cf. Giovanni Paolo II, Redemptoris missio, 37): vero e proprio centro culturale moderno all’interno del quale si possono individuare i codici interpretativi delle giovani generazioni.
Ed allora risulterà opportuno, oltre che necessario, superare le concezioni oggi dominanti che vedono nello sport ora una sorta di “religione laica universale” piuttosto che un “nuova industria globale” o, infine, un’esperienza “neutrale” cioè sganciata da ogni valore morale.
Lo sport, al contrario, è una manifestazione dell’uomo e quindi, al tempo stesso, è al servizio dell’uomo; dunque né fine, né mezzo ma, come indicato dalla CEI attraverso la competente Commissione Commissione Ecclesiale, lo sport “…è un valore dell’uomo e della cultura, un luogo di umanità e civiltà…”.
Per usare le parole della Chiesa “Lo sport, come la cura del corpo nel suo insieme, non può essere un fine a sé, degenerando nel culto della materia. Esso è al servizio di tutto l’uomo; dunque lungi dall’intralciare il perfezionamento intellettuale e morale, deve promuoverlo, aiutarlo e favorirlo” (PIO XI Discorso per il congresso scientifico Nazionale dello Sport e dell’Educazione Fisica, 8.11.1952); ed ancora “…una filosofia dello sport, il cui principio-chiave non è ‘lo sport per lo sport’ o per altre motivazioni che non siano la dignità, la libertà, lo sviluppo integrale dell’uomo” (GIOVANNI PAOLO II Discorso per il Giubileo Internazionale degli Sportivi 12.4.1984).
Ecco che allora, quanto meno per un dirigente sportivo che abbia ben radicati in sé i valori della tradizione cristiana, la risposta all’interrogativo iniziale è facilmente formulabile; il che peraltro non significa che l’attuazione sul terreno pratico sia agevole, anzi tutt’altro, ma progettare una dimensione sportiva per i giovani vuol dire stimolare le loro abilità motorie e la conseguente necessità di completamento spirituale.
La cura e la conoscenza del proprio corpo, il riconoscimento progressivo delle proprie potenzialità, l’accettazione dei propri limiti, le capacità relazionali con i compagni, con gli avversari e con gli allenatori, l’abitudine alla disciplina ed al rigore applicativo, pur nel gioco, sono istanze educative collegate alla persona prima ancora che all’atleta; è ciò che rende lo sport veicolo anche di una migliore ed autentica introspezione spirituale.
Una sorta di funzione pedagogica che renda i giovani meno vulnerabili di fronte ai disvalori di una modernità in caduta libera rispetto alla morale; che si erga da baluardo individuale e sociale di fronte ad un nichilismo sempre più avvolgente.
Si pensi ai momenti topici della gara sportiva: la sconfitta e la vittoria.
Insegnare ai giovani a “perdere senza considerarsi perdenti” o a “vincere senza esaltazioni illusorie o rischiosi logoramenti interiori” (Commissione Ecclesiale per la pratica dello sport, Febbraio 2007) sono canoni pedagogici imprescindibili cui ogni dirigente sportivo dovrebbe rifarsi nel suo quotidiano agire; troppi sogni sovradimensionati imposti ai ragazzi, spesso dagli stessi genitori, che mancano di quella consapevolezza culturale per cui lo sport viene considerato esclusivamente un riscatto sociale ed economico.
Insomma, per tornare alla domanda iniziale, non solo è possibile conciliare sport e etica ma ciò deve essere un compito preciso per chi si riconosca nella tradizione cristiana laddove “la luce della Fede offre un contributo originale e determinante alla umanizzazione dello sport”.

Ps: la domanda iniziale di questo articolo è stata posta nell’ambito sportivo ma prossimamente su questo sito vorremmo trasportarla nell’ambito della nostra professione: è possibile ancora un’avvocatura unita da valori condivisi oppure ormai la competizione selvaggia ha mutato geneticamente il nostro ruolo costituzionale (e la nostra rappresentanza forense) ?

Fabrizio Tropiano

L’avvocato Fabrizio Maria Tropiano, 51 anni, svolge la professione da oltre 25 anni negli studi di famiglia del foro di Roma ove il patrocinio viene esteso nei vari settori delle specializzazioni professionali.
Vincitore di concorso per la docenza nelle discipline giuridiche ed economiche, dopo aver praticato il tennis agonistico e vinto diversi titoli italiani individuali ed a squadre di categoria è diventato Presidente della Federazione Italiana Tennis del Lazio carica che detiene tutt’ora.
E’stato campione italiano e mondiale di tennis e di calcio nei campionati riservati agli avvocati.
Più volte membro di Commissione d’esame per gli avvocati è stato eletto delegato del Consiglio dell’Ordine di Roma per gli ultimi congressi nazionali e da sempre è membro dell’Associazione “Emilio Conte”.