Ottiene il risarcimento del danno una famiglia che ha subito l’illegittimo allontanamento della propria figlia di cinque anni ad opera dei servizi sociali, a causa di infondati sospetti di molestie sessuali a carico del padre.
Il Comune, cui i servizi fanno riferimento, è chiamato a rispondere ex art. 2049 cod. civ. per la condotta colposa dei suoi dipendenti.
Questa la decisione della terza sezione della Corte di Cassazione, che con la sentenza n. 20928/2015 ha respinto il ricorso presentato dal Sindaco del Comune di Nova Milanese, condannato in primo e secondo grado al ristoro del danno biologico e morale subito dai genitori e dalla minore.
La vicenda giudiziaria prende le mosse dal provvedimento di allontanamento della piccola dalla casa familiare e di affidamento al Comune, provvedimento che i servizi sociali ottengono a seguito delle dichiarazioni di una maestra d’asilo, sulla base delle quali si sarebbe ravvisato il sospetto di molestie sessuali da parte del padre sulla figlia minore.
A seguito di ulteriori indagini, il Tribunale dei minori dispone il rientro in famiglia della bambina, revocando ogni provvedimento contro il padre e dando atto che gli accertamenti condotti nei sei mesi di allontanamento non hanno fatto emergere elementi compatibili con la possibile sussistenza di molestie sessuali, né contenuti atti a far ipotizzare disturbi della personalità o altri aspetti psicologici.
Condannato al ristoro dei danni nei confronti della famiglia istante, sia dal Tribunale che dalla Corte d’Appello, il Comune coinvolto propone ricorso innanzi la Suprema Corte di Cassazione. Resistono con controricorso i genitori.
Gli Ermellini, analizzando l’art. 403 cod. civ. – che testualmente prevede che “Quando il minore è moralmente o materialmente abbandonato o è allevato in locali insalubri o pericolosi, oppure da persone per negligenza, immoralità, ignoranza o per altri motivi incapaci di provvedere all’educazione di lui, la pubblica autorità, a mezzo degli organi di protezione dell’infanzia, lo colloca in luogo sicuro, sino a quando si possa provvedere in modo definitivo alla sua protezione” – affermano che il potere del Sindaco di intervenire direttamente sull’ambiente familiare, ai sensi del citato articolo, “è previsto per i casi di ‘abbandono morale e materiale’ (trascuratezza, mancanza di cure essenziali, percosse, ambiente insalubre o pericoloso, ecc.) ed in genere per situazioni di disagio minorile che siano palesi, evidenti o comunque di agevole e indiscutibile accertamento, al fine di adottare in via immediata i provvedimenti di tutela contingibili e urgenti, che si appalesino necessari”.
Invece, l’autorità amministrativa non ha alcun potere di indagine o istruttoria sul singolo caso.
L’ente deve, infatti, con tempestività e urgenza, rivolgersi alle istituzioni competenti, come il Tribunale per i minorenni e al pubblico ministero.
Rileva la Corte come, nel caso di specie, “il personale del Comune sia incorso da un lato in imperizia nel gestire la vicenda, facendo affidamento sui sospetti di una persona priva della competenza richiesta per la valutazione del caso, anziché percepire la delicatezza della situazione e la necessità di procedere ad ulteriori ed approfondite indagini da parte di organi giudiziari competenti; dall’altro in negligenza ed incuria, avendo – su tali precarie basi – sollecitato un provvedimento grave e traumatico quale l’allontanamento della minore dalla famiglia per vari mesi”.
Non solo, la Corte ha ritenuto responsabile il Comune interessato anche per aver impedito ogni contatto della bambina con i familiari nel periodo del suo ricovero in comunità protetta.
La giustificazione dell’amministrazione, la quale ha fondato il proprio diniego esclusivamente sul parere negativo dei servizi sociali, non è stata ritenuta dagli Ermellini di carattere esaustivo.
Sulla base di ciò, la Corte di Legittimità ha confermato la sentenza di appello, ritenendo responsabile il Comune ai sensi dell’art. 2049 cod. civ. per l’operato dei servizi sociali, condividendo la condanna del ricorrente al risarcimento del danno nei confronti della famiglia. Anche in punto di liquidazione la Cassazione ha aderito a quanto deciso dal giudice a quo, il quale ha basato le conclusioni sulle risultanze della consulenza tecnica d’ufficio, finalizzata alla valutazione della sussistenza di eventuale danno biologico da patologia psichica ricollegabile in rapporto causale con gli eventi per cui è causa. Tali determinazioni hanno rappresentato un equilibrato e ragionevole compromesso, sostiene la Cassazione, fra l’esigenza di assicurare un ristoro effettivo della sofferenza cagionata alla bambina da un trauma affettivo che potrebbe segnare l’intera vita e la necessità di evitare che l’azione risarcitoria possa essere strumentalizzata allo scopo di trarne un ingiustificato profitto.