Lo dico da convinto ex giudice conciliatore: all’inizio degli anni novanta, quando si affacciavano alla ribalta del dibattito giuridico italiano le voci sulla necessità di riformare l‘impianto della magistratura onoraria civile di primo grado, mediante tra l’altro l’introduzione della figura del Giudice di Pace, molti di noi erano sinceramente contenti. I “vecchi” giudici conciliatori erano invero stati costretti da sempre ad occuparsi di cause veramente inutili (il limite massimo di valore economico per la relativa attribuzione di competenza era quello di un milione di vecchie lire, dopo esser stato inchiodato per tanti anni alle centomila lire) e quindi l’idea di veder riformato il ruolo, con la devoluzione di controversie di diverso spessore, non poteva che rallegrarci.
In disparte l’idea un po’ romanzata (e che vagheggiava di talune leggende evocate dalle gesta dei giudici di pace d’oltre oceano, legittimati finanche a disporre lo scioglimento del matrimonio) che si stava sviluppando in quel tempo intorno alla figura del nuovo magistrato onorario, va detto che anche la categoria si mostrò inizialmente favorevole alla soppressione del conciliatore, per il quale l’ordinamento non aveva previsto neppure il requisito del possesso della laurea in giurisprudenza (titolo che peraltro, almeno negli uffici ubicati nelle città, era ovviamente vantato da tutti i nominati). Nel 1992 organizzai un Convegno apposito (dal titolo “Giudice conciliatore oggi, Giudice di Pace domani?“) e scoprii, infatti, che eravamo in tanti a pensarla in quel modo.
A distanza di venti anni dalla sua istituzione, nessuno avrebbe mai potuto immaginare gli sfaceli che la categoria dei Giudici di Pace avrebbe creato ai danni di ignari cittadini (ma soprattutto di Enti). Come in ogni giudizio di valore, peraltro, non è lecito generalizzare: esistono infatti moltissimi magistrati onorari coscienziosi, scrupolosi, attenti, che svolgono la loro funzione con perizia e diligenza. Ma si tratta, oggettivamente, di eccezioni. Tanto sono eccezioni che quando se ne incontrano si resta meravigliati. Per carità: sono eccezioni anche quelli che, tra i Giudici di Pace, finiscono in manette perché sono corrotti (il caso del tizio che operava ad Ostia) ovvero, comunque, dei “poco di buono” (si veda il falsario padovano). Io parlavo, però, del grado di preparazione professionale, di accuratezza nella gestione delle udienze, di stile e capacità nel redigere le sentenze. Una disfatta. Una vera e propria caporetto delle norme giuridiche e comportamentali.
A prescindere dalla circostanza che molti di questi magistrati continuano a godere di inusitati rinnovi normativi più o meno generalizzati, di talché restano in carica praticamente sino ad un passo dalla tomba, i peggiori si sono rivelati proprio quelli che furono nominati all’inizio di questo ventennio. Su di loro si sono scritte persino molte barzellette, tuttavia frutto di episodi accaduti veramente: come quello del diniego di autorizzazione opposto con determinazione alla citazione del garante, invocata dal terzo, motivata col fatto che il Codice di procedura non contempla la chiamata “del quarto”. Alcuni di questi girano ancora negli uffici di Via Teulada, sede del Giudice di Pace romano, trascinandosi le stanche gambe e costringendo i giovani avvocati ad urlare in udienza, per vincere la loro sordità. Una pena.
Molti di questi giudici utilizzano indebitamente la porta di udienza per appiccicarci sopra, affastellati l’uno sotto all’altro, degli squallidi foglietti vergati a mano in cui avvisano che l’udienza già fissata non si terrà, e che è rinviata d’ufficio, a causa dell’indisponibilità del magistrato. Comunicazioni che, non soltanto sotto il profilo della forma, non hanno il minimo senso del decoro. Tra l’altro fanno scattare irripetibili imprecazioni agli avvocati che, una volta arrivati sin lì (magari solo per quella udienza), son costretti a ritornarsene mestamente a studio a causa del disposto rinvio. La maggioranza di costoro, poi, viola sistematicamente ed impunemente la legge, quando decide di compensare le spese di lite tra le parti senza (il che è vietato, oramai, da anni) spiegare il perché chi ha vinto deve pure pagarsi l’avvocato.
Ci sono poi giudici di Pace che invece mostrano estrema diligenza nel loro lavoro e rispettano non solo le norme, ma prendono veramente alla lettera anche le “istruzioni” che da più parti (ministero, c.s.m., consiglio giudiziario, dottrina, ecc.) vengono emanate al fine di permettere che la giustizia civile possa essere davvero più rapida ed efficace. Vi sono molti strumenti per raggiungere lo scopo: tra questi si cita, di norma, anche il modo di scrivere le sentenze. Per un giudice che è deputato dall’ordinamento ad occuparsi di cause bagattellari non è ragionevole essere costretto a diffondersi eccessivamente nell’assolvere al dovere motivazionale; cosicché è certamente la sintesi una delle doti che gli si chiede di possedere. A che serve sforzarsi in modo sovrabbondante, nella sentenza, per spiegare chi ha torto e chi ha ragione? Anche alla stessa Corte di cassazione è richiesto di essere stringata, figuriamoci ad un umile Giudice di Pace che tratta di contenziosi minimi.
Ebbene, tanto deve averla presa alla lettera questa raccomandazione la dottoressa Franca Martorana, Giudice addetta al Primo Ufficio del Giudice di Pace di Roma, che della sintesi ne ha fatto una sorta di imperativo categorico personale. Nella sentenza n. 85757 depositata l’11 giugno 2015, infatti, la motivazione della decisione è la seguente: “Rigetta ogni contraria istanza, eccezione e difesa poiché destituite di ogni fondamento. Condivide e fa proprie le motivazioni del ricorrente”. Punto. Domanda accolta. Giochi finiti.
Questa signora, Giudice di Pace da una vita (ma che, poveri noi, si firma anche “avv.”….), deve aver imparato che tanto è del tutto inutile perdere tempo a spiegare perché uno dei contendenti abbia diritto a che la propria controparte soccomba nel processo: meglio, molto meglio, scrivere allora che si aderisce alla tesi di uno o dell’altro. Si dice solo che “si condivide” e l’affare e bello e fatto! E’ comodo e si chiude in bellezza. Anche perché il Giudice di Pace è pagato a cottimo (più sentenze deposita, anche se scritte male, più guadagna: questo è il curioso sistema che il legislatore si inventò all’epoca): né a dire che possa preoccuparsi del pubblico ludibrio (giustamente temuto dai magistrati togati, soggetti a verifiche), perché le sue sentenze sono appellabili solo in casi eccezionali e, dunque, non ci sarà un altro giudice al quale sia possibile sottoporre la correttezza del suo decisum.
Fred Bongusto cinquant’anni fa cantava “e la chiamano estate”… : oggi, dopo mezzo secolo, ci dovrebbe essere qualcuno che canti, invece, “e lo chiamano giudice”…
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