L’art. 1669 c.c. è applicabile, ricorrendone tutte le altre condizioni, anche alle opere di ristrutturazione edilizia e, in genere, agli interventi manutentivi o modificativi di lunga durata su immobili preesistenti, che (rovinino o) presentino (evidente pericolo di rovina o) gravi difetti incidenti sul godimento e sulla normale utilizzazione del bene, secondo la destinazione propria di quest’ultimo.
Il richiamato principio di diritto è stato recentemente espresso dalle Sezioni Unite della Suprema Corte[1] che, ritenendo meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., hanno esteso la sua applicabilità, in presenza di tutte le condizioni, non solo alle ‘nuove costruzioni’ ma anche alle ipotesi di interventi di tipo manutentivo-modificativo di lunga durata nel tempo. Ciò sia nel caso in cui, a seguito delle riparazioni o delle modifiche, collassi l’intera e preesistente struttura immobiliare, indipendentemente dall’importanza in sé della parte riparata o modificata, sia ove la rovina o i gravi difetti riguardino direttamente quest’ultima.
In fatto. A seguito dell’azione risarcitoria promossa da tutti i partecipanti di un condominio contro la società venditrice e contro la società che, su incarico della prima, aveva eseguito sull’edificio interventi di ristrutturazione edilizia, per i «danni consistenti in un esteso quadro fessurativo esterno ed interno delle pareti del fabbricato ed altri gravi difetti di costruzione», il Tribunale, ritenuta la ricorrenza di gravi difetti dell’opera, accoglieva la domanda e condannava le società convenute al pagamento di una certa somma di danaro a titolo di responsabilità per danni ex art. 1669 c.c.. Adìta la Corte d’Appello, la sentenza veniva ribaltata a favore delle Imprese soccombenti in primo grado perché il giudice di seconde cure riteneva che, ai fini dell’applicazione dell’art. 1669 c.c., la costruzione di un edificio o di altra cosa immobile destinata a lunga durata costituisce presupposto e limite della responsabilità dell’appaltatore. «E poiché nella specie erano stati eseguiti solo interventi di ristrutturazione edilizia (con cambiamento di destinazione d’uso da ufficio ad abitazione), comprendenti la realizzazione di nuovi balconi ai primi due piani, di una scala in cemento armato e di nuovi solai ai sottotetti, non si trattava della nuova costruzione di un’immobile, ma di una mera ristrutturazione. Di qui l’inapplicabilità della norma anzi detta». In altri e più chiari termini, la Corte territoriale riteneva che, trattandosi di interventi di ristrutturazione e non di costruzione di un immobile, non poteva trovare applicazione la previsione di cui all’art. 1669 c.c..
La Suprema Corte, investita del ricorso promosso dai condomini, ravvisando un contrasto di giurisprudenza sulla riconducibilità all’art. 1669 c.c. anche delle opere edilizie eseguite su di un fabbricato preesistente, ha rimesso la causa al primo Presidente, che l’ha assegnata alle Sezioni Unite.
In motivazione. Le Sezioni Unite ricordano che soltanto in tre occasioni il tema è stato affrontato dalla giurisprudenza di legittimità in maniera chiara ed esplicita. E precisamente, con le sentenze nn. 24143/2007 e 10658/2015, secondo cui, ove non ricorra la costruzione ex novo di un edificio o di altre cose immobili di lunga durata, ma un’opera di mera riparazione o modificazione su manufatti preesistenti, non è applicabile l’art. 1669 c.c. ma, ricorrendone le condizioni, le norme sulla garanzia ex art. 1667 c.c.. «Di segno opposto», ricordano ora gli Ermellini, la decisione recente n. 22553/2015, «secondo cui risponde ai sensi dell’art. 1669 c.c. anche l’autore di opere realizzate su di un edificio preesistente, allorché queste incidano sugli elementi essenziali dell’immobile o su elementi secondari rilevanti per la funzionalità globale».
Ciò precisato, le Sezioni Unite aderiscono all’orientamento meno restrittivo, «ritenendolo sostenibile sulla base di ragioni d’interpretazione storico-evolutiva, letterale e teleologica».
Si legge nella sentenza: «nell’ampliare il catalogo dei casi di danno rilevante ai sensi dell’art. 1669 c.c., l’aggiunta dei “gravi difetti” ha comportato per trascinamento l’estensione dell’area normativa della disposizione, includendovi qualsiasi opera immobiliare che (per traslato) sia di lunga durata e risulti viziata in grado severo per l’inadeguatezza del suolo o della costruzione. Ne è seguita, coerente nel suo impianto complessivo, l’interpretazione teleologica fornita dalla giurisprudenza, che è andata oltre l’originaria visione dell’art. 1669 c.c. come norma di protezione dell’incolumità pubblica, valorizzando la non meno avvertita esigenza che l’immobile possa essere goduto ed utilizzato in maniera conforme alla sua destinazione».
Particolarmente chiaro il seguente periodo: «Ai limitati fini che qui rilevano può solo osservarsi che, come sopra detto, la categoria dei gravi difetti tende a spostare il baricentro dell’art. 1669 c.c. dall’incolumità dei terzi alla compromissione del godimento normale del bene, e dunque da un’ottica pubblicistica ed aquiliana ad una privatistica e contrattuale. Oltre a ciò, va considerata la maggior importanza che sul tema della tutela dei terzi ha assunto, invece, l’esperienza dell’appalto pubblico; l’espresso riconoscimento dell’azione anche agli aventi causa del committente (i quali possono agire anche contro il costruttore-venditore: fra le tante, v. Cass. nn. 467/14, 9370/13 e 2238/12 e 4622/02), il che ha privato del suo principale oggetto la teoria della responsabilità extracontrattuale ex art. 1669 c.c.; i più recenti approdi della dottrina sull’efficacia ultra partes del contratto; e — da ultima, ma non ultima — la possibilità che tale efficacia operi in favore dei terzi nei casi previsti dalla legge (art. 1372, cpv. c.c.). Tutto ciò rende ormai meno attuale il tema della natura extracontrattuale della responsabilità di cui all’art. 1669 c.c., che se non ha esaurito la propria funzione storica (per difetto di rilevanza non è questa la sede per appurarlo), di sicuro ha perso l’originaria centralità che aveva nell’interpretazione della norma».
Parola al giudice del rinvio.
[1] 27.03.2017, n. 7756