A seguito di un intervento, da parte di un magistrato, su un forum di discussione, avente ad oggetto non solo la professionalità del Presidente del Tribunale di […] ma, altresì, l’andamento complessivo della giustizia, in particolare di quella civile del Foro di […], intervento del seguente tenore: «Come se l’intera avvocatura, senza distinguere fra avvocati preparati e validi e vere proprie capre, fosse la vittima innocente di un sistema nazi-fascista, despota ed autoreferenziale, che non lascia loro diritti né spazi operativi…», l’Ordine degli Avvocati di […] riteneva senza dubbio alcuno che, dare delle ‘capre’ agli avvocati, non poteva non integrare il reato di diffamazione.
Dello stesso avviso, la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura – a fronte dei doveri del magistrato, elencati all’art. 1 del D.Lgs. n.109/2006 [«Il magistrato esercita le funzioni attribuitegli con imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo e equilibrio e rispetta la dignità della persona nell’esercizio delle funzioni» (comma 1) nonché, al comma 2 «Il magistrato, anche fuori dall’esercizio delle proprie funzioni, non deve tenere comportamenti, ancorché legittimi, che compromettano la credibilità personale, il prestigio e il decoro del magistrato o il prestigio dell’istituzione giudiziaria»] – che riteneva il magistrato medesimo responsabile dell’illecito di cui all’art. 2, primo comma, lettera d) [1. Costituiscono illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni: …. d) i comportamenti abitualmente o gravemente scorretti nei confronti delle parti, dei loro difensori, dei testimoni o di chiunque abbia rapporti con il magistrato nell’ambito dell’ufficio giudiziario, ovvero nei confronti di altri magistrati o di collaboratori] e all’art. 4, primo comma, lettera d) [1. Costituiscono illeciti disciplinari conseguenti al reato: … d) qualunque fatto costituente reato idoneo a ledere l’immagine del magistrato, anche se il reato è estinto per qualsiasi causa o l’azione penale non può essere iniziata o proseguita] per la portata gravemente scorretta e diffamatoria delle parole utilizzate nei confronti del Foro, ché, anche se dirette nei confronti di incertam personam, i destinatari delle offese erano esattamente individuabili negli avvocati appartenenti al Consiglio dell’Ordine di [….].
Adìta la Suprema Corte dal magistrato, gli Ermellini, che hanno ritenuto insussistenti nel caso di specie gli illeciti contestati, hanno invece accolto il ricorso[1], non ravvisando una responsabilità nel caso in cui l´offesa non sia diretta a una persona ma a una categoria.
I giudici di Piazza Cavour, inserendosi nel solco di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, hanno richiamato il principio per cui «il reato di diffamazione consiste nell’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria anche limitata se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili» (cfr., ex multis, 24065/2016).
In altri e più chiari termini, la sentenza impugnata è erronea perché manca un destinatario identificato o identificabile, non potendo l’espressione essere indirizzata, come sostenuto dalla ricorrente nel proprio ricorso, né al Consiglio dell’Ordine né al suo Presidente ma a una «indistinta minoranza di professionisti che non collaborano in alcun modo alla corretta gestione del contenzioso senza nessun riferimento, neppure velato, a specifici avvocati o a specifici fatti dai quali fosse possibile risalire a soggetti determinati».
[1] Corte di Cassazione, SS.UU., 17.03.2017, n. 6965