La Sezione Tributaria della Suprema Corte, con ordinanza recente[1], ha stabilito che paga l’Irap (imposta regionale sulle attività produttive) il professionista che si avvale di un praticante il cui apporto, certamente dì natura intellettuale e proprio della professione da questi esercitata, abbia accresciuto il valore della consulenza fornita ai clienti dello studio, tanto da corrispondergli anche un emolumento.
In fatto. A ricorrere in Cassazione l’Agenzia delle Entrate che si era vista rigettare, da parte della Commissione tributaria regionale della Puglia, l’appello proposto contro la decisione della Commissione tributaria provinciale di Lecce che aveva accolto il ricorso di [X] con la richiesta di rimborso Irap per gli anni dal 1999 al 2001. Il ricorso era affidato a tre motivi, in particolare: (i) violazione di legge laddove la Commissione aveva operato un’inammissibile scissione fra il contributo personale del contribuente alla formazione del reddito e l’apporto della struttura di cui si era avvalso; (ii) difetto di motivazione posto che non si era spiegato come il contributo offerto dal figlio, pur assunto come praticante, non avesse determinato alcun incremento della prestazione del contribuente; (iii) mancata pronuncia sulla decadenza del rimborso, eccepita nel gravame di merito.
In diritto. Per gli Ermellini trova ingresso il motivo di ricorso dell’Agenzia ricorrente, confortato da una pronuncia a Sezioni Unite della Corte Suprema (9451/2016), secondo cui, in tema di Irap, «il presupposto dell'”autonoma organizzazione” richiesto dall’art. 2 del d.lgs. n. 446 del 1997 non ricorre quando il contribuente responsabile dell’organizzazione impieghi beni strumentali non eccedenti il minimo indispensabile all’esercizio dell’attività e si avvalga di lavoro altrui non eccedente l’impiego di un dipendente con mansioni esecutive». Con riguardo alla fattispecie, «In applicazione di tale principio di diritto, la Commissione regionale non poteva, così, limitarsi ad affermare che l’apporto di un praticante non avesse di per sé potuto costituire un concreto incremento della prestazione intellettuale, ma avrebbe dovuto vagliare se il professionista che se ne era avvalso avesse, con tale apporto, certamente dì natura intellettuale e proprio della professione da questi esercitata, accresciuto il valore della consulenza fornita ai clienti dello studio», tanto più che si era determinato a corrispondere al collaboratore financo un emolumento.
Parola al giudice del rinvio.
[1] 24.01.2018 n. 1723