Il nuovo status giuridico dell’avvocato pubblico alla luce del riformato Ordinamento forense
Gli avvocati degli enti pubblici sono stati vittima di quel famigerato art. 3 comma 4 lett. b) della legge professionale (R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578)[1], scritto “in negativo”, per “sottrazione” come sono solito dire io, espressione di una deroga forzata al regime dell’incompatibilità tra esercizio dell’avvocatura e svolgimento di un impiego pubblico. La madre di tutte le questioni che riguardavano le Avvocature pubbliche è che alla radice di ogni problema, anche della stessa configurazione dell’intera categoria degli Avvocati iscritti nell’elenco speciale, era dunque costituita, allora, dalla necessità di riformulare le disposizioni che concernono questo particolare profilo della professione forense. Esisteva da decenni, in altri termini, un non più ineludibile bisogno di una nuova norma di legge che regolasse il fenomeno, e, dunque, non era ulteriormente procrastinabile l’idea di un moderno “statuto unitario dell’Avvocatura pubblica”.
Ai giovani che si affacciano, timidi e disorientati, allo studio del complesso pianeta del diritto, ed in particolar modo della professione dell’avvocato, riesce difficile capire come possa coniugarsi l’attività forense, che si fonda sull’insopprimibile binario concettuale dell’autonomia e dell’indipendenza dell’esercente la professione (autonomia principalmente dal “proprio” cliente), con il rapporto di pubblico impiego, che è basato su altrettanti elementari postulati quali l’obbligo di rispetto gerarchico, di presenza continua nel luogo di lavoro, di un determinato orario di servizio contrattualmente stabilito, e via dicendo.
E’ cioè piuttosto incomprensibile intendere come si possa conciliare il tema della libertà della toga con quello del vincolo che sorge, in definitiva, con l’erogazione di una retribuzione continuativa connessa alla stipula di un contratto di lavoro di natura subordinata. Si tratta di spiegare le ragioni di una figura ibrida, sempre sospesa tra la dipendenza e l’autonomia, di una sorta di strano mostro anfibio, di professionista ma anche impiegato, che si relaziona sovente in modo distorto con quello che da un lato è il proprio cliente, ma dall’altro anche il proprio datore di lavoro.
Se l’assenza di una norma di legge che disciplinasse in modo “moderno” la professione forense in favore degli Enti pubblici costituiva, come dianzi osservato, la “madre” di tutti i problemi del settore, non c’è dubbio che l’apparente ed eterno dissidio tra libertà e subordinazione rappresenta, da sempre, il nodo gordiano della duplicità di status che contraddistingue gli iscritti all’elenco speciale. Da un lato professionisti, dall’altro dipendenti (ma dipendenti, anche qui, in modo peculiare e difforme da quanto sia “dipendente” il restante personale dell’Ente). La prestazione richiesta all’avvocato, la cui pretesa da parte dell’Ente riposa sul presupposto di una maggiore preparazione culturale e su una qualificazione professionale più intensa rispetto a quelle che si richiedono agli altri dipendenti (anche a quelli, a ben vedere, appartenenti alla dirigenza), fa sì che il legale sia assoggettato a ben due ordini di responsabilità e, quindi, di disciplina, in funzione della duplicità di status rivestito.
La caratteristica del doppio status è però diventata, col tempo, non un punto di forza della categoria, non già elemento qualificante l’attività svolta, ma un fattore di incertezza, di incomprensione, di disorientamento, per gli Enti ma a volte per gli stessi soggetti interessati: è diventata, in altri termini, un problema. Il pendolo, che eternamente oscilla da un polo all’altro dell’arco concettuale disegnato dalla configurazione di questa insopprimibile duplicità di status (da un lato il “polo” del professionista, dall’altro quello del dipendente), negli ultimi anni si è avvicinato sempre più pericolosamente all’estremità considerata meno fausta: c’è così il rischio concreto di veder molti iscritti all’Elenco speciale risucchiati nella logica della più marcata e negativa subordinazione dall’Ente, finendo per essere poi assoggettati alla disciplina normativa vigente per un qualsiasi commesso od impiegato d’ordine.
La subordinazione spinta oltre ogni ragionevole misura non può, alla fine, che incidere anche sullo ius postulandi, il cui esercizio è davvero l’elemento qualificante dello svolgimento della professione forense. E se lo ius postulandi non è esercitabile davvero in modo pienamente autonomo ed indipendente, vuol dire che le caratteristiche prime ed insopprimibili dell’avvocato non esistono più. Se l’atto processuale scritto dall’avvocato-dipendente viene “manipolato” dal Direttore del personale o da quello degli Affari generali, che esercitano sul legale il proprio potere di supremazia, se l’organo di indirizzo politico interviene per imporre la strategia processuale, ebbene la funzione di libertà che l’ordinamento giuridico assegna al professionista forense viene cancellata con un sol colpo. Se per poter partecipare ad un seminario di aggiornamento professionale (quindi un’occasione di arricchimento culturale della quale si gioverà, incontrovertibilmente, anche lo stesso Ente cui l’avvocato appartiene), il legale è costretto a chiedere la concessione di un giorno di congedo al proprio datore di lavoro, significa che non esiste più l’autonomia necessaria cui l’iscritto all’Elenco speciale ha innegabilmente diritto.
La tematica concernente i tentativi da parte degli Enti di assoggettare i professionisti forensi alle logiche della subordinazione pura, fine a sé stessa, in un sistema imperniato sul rispetto formale degli obblighi connessi allo status di dipendente, ha assunto nel tempo una congerie di sfaccettature.
In primis v’è il problema dell’inquadramento. Nella varietà degli ordinamenti interni dei vari Enti si assiste ad una fortissima e marcata differenziazione in termini di inquadramento degli avvocati-dipendenti. In alcune realtà l’Amministrazione motu proprio ha deliberato, cogliendo l’occasione della soppressione della figura del procuratore legale all’indomani dell’emanazione della L. n. 27 del 1997, di inquadrare i propri avvocati nella qualifica dirigenziale (rilevando solo sul piano economico l’eventuale distinzione tra abilitati al patrocinio dinanzi le giurisdizioni superiori e non)[2]. In altre situazioni ha dovuto metter mano l’Autorità giudiziaria, alla quale hanno fatto ricorso taluni avvocati pubblici, stabilendo il diritto dei legali di esser inquadrati nel più alto livello previsto dal contratto di lavoro vigente[3].
Perdura però la resistenza di molti ordinamenti a considerare gli iscritti all’elenco speciale veri e propri “professionisti”, con l’effetto di accomunarli, nel trattamento giuridico, ad altre figure professionali di norma di natura amministrativa (quadri, funzionari, impiegati, istruttori, ecc.) non appartenenti alla dirigenza. Con immaginabili conseguenze sotto ogni punto di vista, primo fra tutti quello della mancanza di autonomia decisionale e di assenza più o meno totale di indipendenza.
Altro problema estremamente avvertito, peraltro fortemente connesso al primo, concerne l’impossibilità di fruire di un orario di lavoro necessariamente “elastico”, che tenga conto delle peculiarità dello svolgimento della professione forense (per le quali, se il lunedì occorre notificare un atto soggetto ad un termine perentorio in scadenza quello stesso giorno, non si esita a lavorare di domenica). Moltissimi iscritti all’Elenco speciale dipendenti di Enti pubblici sono assoggettati a sistema di rilevazione automatica della presenza, ovvero all’utilizzo del cartellino marcatempo (oggi, un badge con banda o chip elettronici) dal quale risultano tutti i loro spostamenti, in entrata ed in uscita, nell’ufficio. Alcuni Enti costringono anche i loro avvocati a far uso dei c.d. “tornelli”, sistemi che impediscono al personale di entrare in sede o di allontanarsi da essa senza aver prima fatto rilevare, dai sistemi informatici di controllo delle presenze, la relativa decisione. Si tratta di situazioni di indecorosa mancanza di rispetto per la dignità e per l’autorevolezza dell’avvocato, costretto a subire un controllo puntuale sull’osservanza dell’orario di lavoro che ne mortifica l’autonomia e ne svilisce le funzioni professionali[4].
Difformità enormi si riscontrano, poi, sul piano del trattamento economico, tra i vari avvocati dipendenti di Enti.
In linea di massima, sul punto, si rinvengono almeno quattro categorie di personale, di seguito indicate.
Esistono innanzitutto gli avvocati cui l’ente riconosce solo un trattamento economico tabellare (la retribuzione ordinaria), al più talvolta maggiorato da incentivi legati a progetti di produttività, alla partecipazione a commissioni, et similia. Vanno poi menzionati gli avvocati cui l’Amministrazione riconosce il diritto di recuperare parte (o tutto) degli onorari cui la controparte soccombente è chiamata dal giudice a versare. Alcuni di loro sono dovuti ricorrere al giudice per aver ragione[5]. La terza categoria è quella dei legali, considerati più fortunati dai loro colleghi, che hanno il diritto di recuperare non solo detti onorari, ma anche le c.d. spese compensate, cioè una somma versatagli direttamente dall’Ente in caso di vittoria della controversia con spese non a carico della controparte. Esiste, infine, una categoria di veri e propri privilegiati, che oltre alla retribuzione ordinaria, hanno diritto agli onorari delle cause vinte, alle spese compensate, e persino agli onorari delle controversie dalle quali il proprio Ente esce soccombente!
Ognun vede quanto sia aspra ed incomprensibile l’enorme disparità di trattamento tra soggetti che, pur tenendo conto delle specificità funzionali ed organizzative del proprio datore di lavoro, sostanzialmente svolgono attività analoghe, tipiche della professione forense.
Tuttavia, ancorché il tema del trattamento economico è assunto dagli avvocati pubblici come quello più scottante e decisivo, va anche qui sottolineato che esso non è altro che una delle tante facce del medesimo problema: quello della necessità che i precetti dell’autonomia e dell’indipendenza del professionista forense siano garantiti ed assicurati anche per coloro i quali militano nell’elenco speciale.
E’ davvero venuto il momento di domandarsi, con coraggio ma al contempo con fermezza, se sia ancora il caso di mantenere in vita il modello delle Avvocature pubbliche. In disparte il fenomeno dell’Avvocatura erariale, la quale poco più di trent’anni fa ha trovato una nuova disciplina legislativa[6] che di fatto ha contribuito a rafforzare l’Istituto (ma, com’è noto, gli avvocati statali non sono iscritti all’Albo), il tema della perdurante esistenza degli Uffici legali degli Enti pubblici sta conoscendo esperienze concrete difformi. Al tentativo, evidente ed innegabile, di talune strutture, di svuotare sempre più di contenuti funzionali gli originari uffici dedicati alla trattazione degli affari legali dell’ente, magari con ricorso spinto ad iniziative di outsourcing, si contrappone qualche timido accenno verso esperimenti di creazione di uffici legali “forti” presso organismi che prima ne erano privi.
Prima di affrontare il quesito dell’opportunità o meno di continuare a parlare di “Avvocatura pubblica2 è necessario, peraltro, conoscere che tipo di risposta le esperienze concrete sin qui maturate hanno fornito all’esigenza dei vari enti pubblici di dotarsi di “propri” tecnici del diritto, fidelizzati attraverso un rapporto di lavoro stabile e duraturo nel tempo.
L’esito di una siffatta indagine può essere sintetizzato da alcune conclusioni contenute nel documento del c.d. Comitato di studio sulla prevenzione della corruzione, istituito dal Presidente della Camera dei deputati con decreto n. 211 del lontano 30.9.1996. Il Rapporto che i componenti il Comitato (Cassese, Pizzorno, Arcidiacono) hanno redatto sul tema (si usciva dalla palude lasciata da quel fenomeno patologico noto col nome di “Tangentopoli”) è emblematico: “una delle ragioni principali della corruzione è la debolezza dell’Amministrazione, data dall’assenza o dall’insufficienza dei ruoli professionali. Essa costringe le Amministrazioni ad affidarsi a soggetti esterni per tutte le attività che riguardano l’opera di specialisti. Il rimedio ipotizzabile è che i professionisti dipendenti iscritti agli albi vanno organizzati in corpi separati, con uno stato giuridico ed un trattamento economico che consentano di attrarre personale di preparazione adeguata. Non ci si deve illudere di poter acquisire le professionalità necessarie, se non si è poi disposti a pagare il loro prezzo, né che la corruzione abbia termine, finché le Amministrazioni non abbiano superato la loro debolezza”!!
Ecco, fornita, allora la risposta alla domanda “ma cosa hanno rappresentato, sin qui, i professionisti degli enti pubblici, ed in particolare quelli di estrazione culturale giuridica?”. Essi sono stati il baluardo della legittimità dell’azione dell’Ente o, ancor di più, i nemici di chi ha praticato il tentativo di corrompere la P.A.; sono coloro che impediscono all’Amministrazione di esser più debole di quanto già non lo sia, quelli che le consentono di potersi rendere il più possibile impermeabile alle tentazioni di malaffare, che sono sempre in agguato.
In nome di questi risultati, innegabili ed encomiabili, uniti alla economicità oggettiva che consente di mantenere in vita le strutture interne, l’assetto precario delle Avvocature degli enti è sopravvissuto ad ogni terremoto normativo e sociale, superando persino le pericolose stagioni delle privatizzazioni e gli effetti di altri fenomeni idonei a minarne le fondamenta (si pensi alle elezioni dirette dei rappresentanti legali degli enti pubblici territoriali, con ciò che ne consegue in termini di correlazione tra investitura popolare e necessità di rapporto fiduciario con la classe dirigente dell’apparato professionale dell’ente stesso).
Tuttavia, a distanza di ottant’anni precisi dal varo della legge professionale forense, ecco che oggi – con notevoli sforzi, non sempre univoci – il Parlamento ha approvato la nuova normativa costituente l’Ordinamento forense, che dedica una specifica norma, stavolta scritta quindi “in positivo”, alle Avvocature pubbliche; l’art. 23. Detta disposizione così recita:
“1. Fatti salvi i diritti acquisiti alla data di entrata in vigore della presente legge, gli avvocati degli uffici legali specificamente istituiti presso gli enti pubblici, anche se trasformati in persone giuridiche di diritto privato, sino a quando siano partecipati prevalentemente da enti pubblici, ai quali venga assicurata la piena indipendenza ed autonomia nella trattazione esclusiva e stabile degli affari legali dell’ente ed un trattamento economico adeguato alla funzione professionale svolta, sono iscritti in un elenco speciale annesso all’albo. L’iscrizione nell’elenco è obbligatoria per compiere le prestazioni indicate nell’articolo 2. Nel contratto di lavoro è garantita l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato.
2. Per l’iscrizione nell’elenco gli interessati presentano la deliberazione dell’ente dalla quale risulti la stabile costituzione di un ufficio legale con specifica attribuzione della trattazione degli affari legali dell’ente stesso e l’appartenenza a tale ufficio del professionista incaricato in forma esclusiva di tali funzioni; la responsabilità dell’ufficio è affidata ad un avvocato iscritto nell’elenco speciale che esercita i suoi poteri in conformità con i princìpi della legge professionale.
3. Gli avvocati iscritti nell’elenco sono sottoposti al potere disciplinare del consiglio dell’ordine”.
Il testo approvato in via definitiva dal Parlamento differisce non poco da quello proposto inizialmente, e facente parte del disegno di legge originario sottoposto per la prima volta al Senato nel maggio 2008 (l’articolo, allora, era il 21), siccome integrato dall’emendamento n. 21.100 approvato in Commissione Giustizia nella seduta del 18 novembre 2009; in quella versione, infatti, il primo comma risultava integrato dal seguente alinea finale, là dove si parla del contratto di lavoro: “nonché un trattamento economico adeguato alla funzione esercitata, da determinare in sede di contrattazione separata del pubblico impiego per la disciplina specifica degli avvocati”). Se non v’è dubbio che l’eliminazione di tale inciso (che si deve alla strenua quanto ingiustificata resistenza da parte della Commissione Bilancio del Senato stesso) impoverisce notevolmente la portata innovativa della disposizione, è anche innegabile che la norma come diventata legge dello Statocostituisce pur sempre un risultato di indiscutibile valore.
Vediamo perché, esaminando singolarmente i tre commi dei quali l’art. 23 si compone.
Nel primo comma innanzitutto si salvaguarda il diritto alla permanenza dell’iscrizione all’Albo di quegli avvocati che, al momento dell’assunzione, erano dipendenti di un Ente pubblico che, in epoca successiva, è stato sostanzialmente privatizzato. Di poi, ed il principio vale per tutti coloro i quali sono chiamati a svolgere funzioni forensi per conto degli Enti pubblici, si prevede come obbligatoria l’iscrizione all’Albo degli avvocati, a condizione che tale attività sia esclusiva ed effettuata in forma stabile. Il comma si conclude poi con l’affermazione, tanto lapidaria e scontata, quanto comunque opportuna per le ragioni di cui si è detto in precedenza, del principio secondo il quale “nel contratto di lavoro è garantita l’autonomia e l’indipendenza di giudizio intellettuale e tecnica dell’avvocato”. In sostanza anche e soprattutto per gli avvocati-dipendenti il sacrosanto principio dell’autonomia e dell’indipendenza del giudizio tecnico viene tutelato in modo netto ed inequivoco.
Il secondo comma, nella sua prima parte, riproduce in sostanza la prassi invalsa presso gli Ordini, e validata dalla giurisprudenza, per la quale l’iscrizione all’Albo è subordinata solo ad un controllo meramente formale: da un lato è necessario che risulti costituito un vero e proprio Ufficio legale all’interno della struttura organizzativa dell’Ente (in assenza del quale non si pone un problema di iscrizione) e dall’altro è indispensabile che l’interessato ne faccia parte, per esservi assegnato con mansioni, appunto, esclusivamente di avvocato (e non solo puramente amministrative). La disposizione si caratterizza, invece, per la parte finale, là dove si impone che il capo dell’Ufficio (opportunamente definito “responsabile”, essendo costui solo un primus inter pares, altrimenti si lederebbe il sopra menzionato postulato dell’autonomia e dell’indipendenza di giudizio dei singoli) debba per forza essere un iscritto all’Albo (id est, nell’elenco speciale): costui è tenuto ad esercitare i propri poteri di coordinatore in conformità con i princìpi della legge professionale. La norma impedirà d’ora in poi, quindi, quella detestabile prassi pur ricorrente (sovente in uso negli Enti pubblici diventati poi “aziende”) che vede a capo dell’Ufficio legale un soggetto che non è (paradossalmente) avvocato.
Il terzo ed ultimo comma prevede poi il controllo, da un punto di vista del rispetto di quei principi del Codice deontologico che trovano applicazione anche per gli avvocati dell’elenco speciale (non tutte le regole del Codice, infatti, si estendono oggettivamente a costoro), da parte del Consiglio dell’Ordine di appartenenza: in modo tale che, sotto il profilo disciplinare, gli avvocati pubblici si ritrovano a poter essere “giudicati” su due diversi e distinti piani (quello interno, nell’ambito dell’organizzazione dettata dal proprio Ente secondo l’ordinamento vigente – si pensi ad eventuali forme di responsabilità amministrativa – e quello esterno, la cui competenza è affidata appunto all’Ordine professionale). Si tratta della più evidente forma di concretizzazione di quel doppio status cui accennavo all’inizio.
Insomma, anche per gli avvocati pubblici è così venuta l’ora di uno statuto unitario: non totalmente omogeneo, invero, se effettivamente taluni profili della loro attività restano assoggettati alle disposizioni dettate nei singoli (e talvolta assai peculiari) ordinamenti di settore (si pensi a quello relativo alla determinazione del trattamento economico, dell’inquadramento sotto l’aspetto della individuazione della qualifica, della disciplina specifica dell’orario di lavoro). E tuttavia l’affermazione dei principi desumibili dall’art. 23 citato costituisce pur sempre un risultato sino a pochi anni fa insperato.
Sarà perché ho contribuito alla stesura del testo (quanto meno nella versione originaria, che ha peraltro subìto, come detto, alcune importanti mutilazioni), ma ben conosco i “mugugni” che la categoria degli avvocati pubblici (che in Italia hanno raggiunto numeri ragguardevoli, sfiorando le quattromila unità) esporrà, in parte, su questa disposizione di legge: perplessità a mente delle quali, in sostanza, la norma non soddisferebbe a pieno le aspettative, non riuscendo a costringere gli Enti ad adeguare i rispettivi ordinamenti a principii omogenei validi universalmente per ogni struttura.
Pur comprendendo i motivi di delusione, debbo però – non essendo abituato ad assumere posizioni intellettuali di ipocrisia sul tema – anche ammettere che una parte numericamente non irrilevante di colleghi dell’Elenco speciale mostra di avere più a cuore la questione dell’inquadramento nella qualifica di dirigente che non la dignità della toga: insomma, ne fa un problema di “galloni” e non di “funzione” (in tal modo contribuendo ad indebolire la propria figura). E’ anche vero, però, che tali posizioni di malcontento dipendono, in gran parte, da un modo alquanto scorretto e mortificante con il quale gli Enti trattano i loro avvocati, sia sul piano del trattamento economico sia su quello dell’apprezzamento e della considerazione della relativa professionalità: spingendo di fatto questi ultimi a preoccuparsi più dello stipendio che non della propria autonomia intellettuale e professionale.
Tuttavia resto dell’idea che mi sembra davvero meglio che l’art. 23, oggi, ci sia, rispetto a quando, invece, una disposizione del genere non esisteva (non essendo comunque da sottovalutare, sul piano sistematico, quel riferimento contenuto nel primo comma – quanto meno dal valore fortemente “pedagogico” – secondo il quale il trattamento economicodeve essere adeguato alla funzione professionale svolta). E da essa non è escluso che possano scaturire, nel prossimo futuro, interessanti innovazioni.
[1] Sono eccettuati dalla disposizione della norma sull’incompatibilità “gli avvocati degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso gli enti di cui allo stesso secondo comma, per quanto concerne le cause e gli affari propri dell’ente presso il quale prestano la loro opera. Essi sono iscritti nell’elenco speciale annesso all’albo”.
[2] Cfr., per il Comune di Roma, la Deliberazione della Giunta comunale n. n. 3274 del 5 agosto 1997.
[3] Cfr. Tribunale di Napoli, Sez. Lavoro, sent. 26 febbraio 2003, sulla causa Cirillo ed altri contro il Comune di Napoli. La decisione muove dalla lettura degli artt. 40 e 69 del Testo unico del Pubblico impiego, stante la volontà del Legislatore di distinguere da tutti gli altri dipendenti coloro che, in posizione di elevata responsabilità, svolgono compiti che comportano l’iscrizione agli albi professionali, quali appunto i professionisti Avvocati. L’art. 40 dispone che per dette figure professionali sono stabilite discipline distinte nell’ambito dei contratti collettivi di comparto. Ai sensi dell’art. 69, comma 11, è stabilito che “in attesa di un’organica normativa della materia, restano ferme le norme che disciplinano, per i dipendenti delle P.A., l’esercizio delle professioni per le quali sono richieste l’abilitazione o l’iscrizione ad ordini od agli albi professionali”. Per il Legislatore, dunque, non sono affatto assimilabili le due categorie di dipendenti pubblici e di professionisti pubblici: va quindi data la prevalenza alla legge che disciplina l’attività dei professionisti in quanto tali, rispetto alla generale disciplina del pubblico impiego in considerazione della particolare formazione professionale e dei compiti espletati da chi è iscritto ad un albo professionale. Il Tribunale napoletano, nella pronuncia citata, dopo aver premesso tutte queste considerazioni, ha osservato che gli avvocati dell’ente sono assunti, previo specifico concorso, non solo perché in possesso del diploma di laurea, ma anche e soprattutto perché abilitati all’esercizio della professione forense (requisito che a sua volta si ottiene dopo un lungo tirocinio ed apposito esame di Stato). Quindi con un quid maggiore rispetto ai requisiti che si richiedono, ex se, ai candidati che aspirano a ricoprire un posto da dirigente nell’ente. E’ ovvio che il giudice partenopeo in quella circostanza ha proseguito il proprio iter motivazionale con riferimento alla L. n. 27 del 1997, che dieci anni fa ha soppresso la figura del procuratore legale.
[4] Si veda in proposito l’ord.za del TAR Lazio, II Sez., n. 1695 del 6 luglio 1995, con la quale è stato sospeso il provvedimento che imponeva anche agli avvocati (nella specie, del Comune di Roma) di utilizzare il badge magnetico, sulla scorta del principio che un siffatto obbligo non è coerente con la specialità dell’esercizio della professione forense e con le prerogative tipiche della figura dell’avvocato pubblico (fermo restando, ovviamente, da parte di costui, il rispetto dell’orario di servizio).
[5] Cfr. sent. Tribunale di Avellino, n. 937/06, resa su domanda di un avvocato della Provincia di Avellino, il quale è stato costretto ad agire in giudizio nonostante vigesse l’art. 37 del relativo contratto nazionale di lavoro che riconosceva espressamente il diritto in contesa!
[6] Cfr. L. 3 aprile 1979 n. 103, recante modifiche dell’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato, che ha innovato il testo del R.D. 30 ottobre 1933 n. 1611.