Ordinamento Forense e specializzazioni
Già nel Congresso di Genova del 1960 l’avvocatura aveva espresso la necessità di prevedere la qualifica di avvocato specialista nella convinzione che tale riconoscimento fosse a garanzia dell’interesse pubblico e a tutela del cittadino.
Dopo oltre cinquant’anni, ed in presenza di ben altri numeri rispetto ad allora, quell’auspicio ha trovato riconoscimento legislativo.
La strada non è stata semplice ed ha dato luogo a non pochi contrasti anche all’interno della categoria: da una parte gli avvocati che da sempre praticano nei cosiddetti “settori di nicchia” (penalisti, giuslavoristi, familiaristi, tributaristi ecc.) dall’altra i cosiddetti “generalisti” che rivendicano il diritto a non avere preclusioni di sorta nello svolgimento dell’attività professionale.
A tal proposito va subito detto che né l’attuale legge né le precedenti iniziative hanno mai ipotizzato che il conseguimento del titolo potesse comportare una riserva di attività professionale, risiedendo viceversa la ratio della previsione, nell’opportunità di tutelare il cittadino nella scelta di un professionista effettivamente qualificato orientandolo attraverso criteri di consapevolezza e garanzia.
Proprio al fine di rispondere alla suddetta esigenza – in considerazione del costante incremento del numero degli avvocati e del conseguente disorientamento dei fruitori dei loro servizi, dovuto anche all’assenza di previsioni che regolamentino in maniera effettivamente trasparente l’informazione sull’esercizio dell’attività professionale – il Consiglio Nazionale Forense , nelle more del laborioso iter di approvazione della riforma, aveva approvato, nell’anno 2009, un regolamento in tema di specializzazioni che anticipava il dettato previsto dal nuovo ordinamento ricalcandone in gran parte i contenuti. Il TAR Lazio, investito della questione, ritenendo la carenza di attribuzioni in capo al C.N.F. a regolamentare la materia, aveva poi annullato il provvedimento.
L’art. 9 della nuova legge professionale riconosce la possibilità di ottenere ed indicare il titolo di specialista. Si tratta di una previsione che – se si vigilerà sulle modalità di conseguimento del titolo stesso, evitando che venga svuotato attraverso criteri di mera automaticità – è destinata ad ammodernare il ceto forense e a rafforzare il diritto di difesa contribuendo alla concreta ed effettiva realizzazione del giusto processo che esige un difensore competente e forte per tutelare al meglio il cittadino che a lui si affida.
Il punto critico riguarda i percorsi formativi attraverso i quali è prevista l’acquisizione del titolo.
La norma , infatti, prevede che i corsi di formazione – di durata biennale –siano organizzati presso le facoltà di giurisprudenza, con le quali il CNF e i consigli territoriali possono stipulare convenzioni. Ciò contrasta con quanto era stato auspicato da tutte le associazioni specialistiche, di fatto espropriando l’avvocatura della possibilità di organizzare percorsi formativi autonomi ed idonei a trasmettere quella effettiva competenza pratica, indispensabile ad una vera specializzazione; il tutto a favore di una visione astratta e teorica della questione.
E’ dunque auspicabile che la disciplina sul punto trovi adeguati aggiustamenti al momento della emanazione dei regolamenti che – ai sensi dell’art. 1 così come richiamato dall’art. 9 della legge – dovranno essere adottati dal Ministero della Giustizia previo parere del CNF.
Occorrerà trovare la formula per ridimensionare il ruolo delle università, di fatto eliminando l’esclusività, in capo ad esse, delle convenzioni che disciplinano la formazione degli specialisti. Si dovrà inoltre dare alle associazioni forensi specialistiche – che da sempre svolgono attività formativa di alto livello – un ruolo primario nella gestione dei corsi, sì da scongiurare il pericolo che il titolo di specialista consegua ad un apprendimento meramente virtuale e teorico anziché essere effettivo riconoscimento di esperienza e professionalità.
La norma prevede che il titolo possa alternativamente essere conseguito “per comprovata esperienza professionale maturata nel settore oggetto di specializzazione” dagli avvocati con otto anni di anzianità di iscrizione all’albo, che dimostrino di aver esercitato in modo assiduo, prevalente e continuativo attività professionale in uno dei settori di specializzazione negli ultimi cinque anni.
Anche in questo caso – secondo quanto stabilito dal comma 5 dell’art. 9 – saranno gli emanandi regolamenti a stabilire parametri e criteri in base ai quali il CNF, cui spetta in via esclusiva l’attribuzione del titolo di specialista, dovrà valutare la sussistenza dei suddetti requisiti relativi all’esperienza professionale maturata.
Pure qui sarà necessario elaborare criteri che privilegino, non solo e non tanto il numero delle questioni trattate nel singolo settore di specializzazione, quanto l’effettiva consistenza e qualità delle stesse onde garantire il riconoscimento di una reale esperienza maturata nella materia.
Ai regolamenti sarà altresì demandata l’individuazione delle singole aree di specialità. L’argomento è già stato oggetto di contrasti in seno all’avvocatura all’indomani dell’approvazione del regolamento del CNF nell’anno 2009. In quel caso furono individuati 11 settori di specialità, comprendenti anche alcune cosiddette “macroaree”, quali il diritto penale, il diritto amministrativo ed il diritto tributario. E’ stato dunque sostenuto che non sarebbe coerente individuare delle “sotto aree” specialistiche nell’ambito del diritto civile a fronte di interi settori di attività quali quelli sopra menzionati. La critica non è del tutto peregrina e la questione dovrà essere oggetto di opportuna valutazione, fermo restando il fatto che è indubbio che il diritto civile abbia un ambito di applicazione molto più vasto di quello delle altre cosiddette macroaree , ciò essendo confermato dalla previsione di sezioni speciali e riti diversi per la trattazione di alcune materie.
E proprio il rito, probabilmente, dovrebbe essere l’elemento da valorizzare nell’individuazione delle aree di specialità. E’ infatti soprattutto l’esperienza processuale maturata dall’avvocato che contribuisce a qualificarlo ben potendo, l’aspetto sostanziale, più facilmente essere oggetto di approfondimento in occasione della trattazione delle singole questioni.
La specializzazione può essere una riforma di struttura della professione. Sta alla sede regolamentare non vanificare l’opportunità di un vero punto di svolta che costituisca garanzia di qualità dell’attività professionale, non tanto e non solo in favore degli avvocati, ma dei cittadini che a loro si affidano.