Cittadini impresa e avvocatura: una falsa contrapposizione, un patto sociale da riscrivere

DI MASSIMILIANO CESALI E GIANPIERO SCARDONE

 

Negli ultimi tempi si è diffuso il convincimento, sostenuto anche da un certo tipo di stampa e di informazione, che l’avvocato sia contrapposto al cittadino, ovvero, con riferimento all’impresa, sia un mero “costo” da combattere con ogni mezzo normativo, uno degli elementi costitutivi del ritardo e della cattiva amministrazione della giustizia in Italia. Questa accezione scaturisce anche dalla falsa rappresentazione della realtà di certa informazione.

 

Contro l’avvocatura ci sono state levate di scudi al grido ingiustificato di “liberalizzazione” e di lotta contro la presunta “lobby degli avvocati”. Sono stati quindi adottati provvedimenti normativi che hanno spazzato via le tariffe professionali minime, introdotti meccanismi di conciliazione “ante causam” – la cui obbligatorietà è stata finalmente appena dichiarata incostituzionale – gestiti soprattutto da altri ordini professionali e categorie, si è ristretto, di fatto, con formule bizantine di vario tipo, il diritto di fare appello e di ricorrere per Cassazione nei procedimenti civili.

 

Il Movimento Forense da sei anni, dapprima solo a Roma ora in parecchie regioni d’Italia, persegue l’obiettivo di promuovere una politica di contenuti che, partendo dall’interno dell’avvocatura e da coloro che vivono quotidianamente i Tribunali, sviluppi proposte e dialogo con le altre componenti del mondo giudiziario, con la società civile e produttiva e, soprattutto, con il mondo politico-legislativo.

 

Il problema dell’avvocatura e delle sue espressioni istituzionali è quello di restare spesso in un mondo chiuso ed autoreferenziale, di avvocati che discutono con avvocati. Da anni ormai la categoria degli avvocati è sottoposta dai governi di tutti i colori politici a provvedimenti non contrastati o mal combattuti. Ciò è avvenuto anche per colpa delle rappresentanze istituzionali dell’avvocatura che hanno preferito la politica dello scontro e dei ricorsi (magari anche vincenti) a quella del dialogo, della concertazione, insomma, quella che noi definiamo “la politica forense”.

 

Chi scrive ha maturato la consapevolezza della necessità di conseguire un nuovo patto sociale tra tutte le componenti della società, che deve passare attraverso la necessaria eliminazione delle reali “risacche” di privilegio e di “mala gestio” e, soprattutto, con il rilancio del sistema giudiziario, reale specchio di uno stato civile, moderno e liberale.

 
Prima di proseguire nel discorso è necessario dimostrare come i presupposti della necessità di “liberalizzazioni” nel settore dell’
avvocatura e della asserita “lobby” degli avvocati siano errati, devianti ed ingannevoli, adducenti a posizioni irreali, come nelle prospettive di Escher.

 

Il termine “liberalizzare” implica una reazione a posizioni privilegiate e ristrette che non consentono l’accesso a determinate attività o categorie.

 

Gli avvocati in Italia sono oltre 247.000, al fronte di una popolazione complessiva di 60 milioni di persone.

 

E’ quindi evidente come, da un lato, l’accesso alla categoria sia stato, a differenza di altri ordini professionali, ampiamente liberalizzato nel corso dell’ultimo ventennio, dall’altro come l’utente finale abbia a disposizione una ampia scelta di professionisti (c’è un avvocato ogni 240 persone!) ed a tutti i prezzi.

 

Anche il concetto di “lobby” è facilmente smontabile se riferito alla categoria forense.

 

Per definizione una lobby indica un gruppo di persone che sono in grado di influenzare a proprio vantaggio l’attività del legislatore e le decisioni dei governanti riguardo a determinati problemi soprattutto economici o finanziari.

 

Niente di tutto ciò è avvenuto per gli avvocati, che hanno subito le più importanti riforme che li hanno riguardati negli ultimi sei anni senza nemmeno che i vertici istituzionali della categoria (anche come detto per colpe proprie) fossero preventivamente consultati, potendo esprimere controproposte e correttivi. La solita obiezione che in parlamento vi siamo numerosi avvocati è stucchevole e di mera forma: la maggior parte di essi (tranne poche eccezioni) ha solo l’iscrizione all’ordine, questi onorevoli avvocati hanno “dimenticato la toga a studio”.

 

E’ necessario a questo punto porre una quesito, il classico ”cui prodest?”; chi si è realmente giovato delle pseudo-liberalizzazioni selvagge – come per esempio l’eliminazione dei tariffari forensi – e quali sono state le reali conseguenze?

 

Se si chiede al cittadino medio se è cambiato qualcosa dal 2006 in poi (decreto Bersani) quanto ai compensi degli avvocati nessuno sa rispondere, perché nessuno ha avvertito alcun cambiamento!

 

La liberalizzazione della professione forense sopra dimostrata, già di per sé implicava una liberalizzazione de facto delle tariffe per i cittadini e per la piccola e media impresa, stante lo stretto rapporto fiduciario tra cliente ed avvocato e l’impossibilità reale di fare richieste fuori mercato.

 

Chi si è giovato del provvedimento normativo, ed è qui appropriato l’utilizzo del termine, è la “lobby” di banche, compagnie assicurative e grandi colossi. Per fare un esempio di facile comprensione, una compagnia assicurativa ormai può vendere, con prezzo al ribasso, “pacchi” di incarichi ai propri legali a prezzo fisso.

 

La conseguenza è quella che non essendoci più nemmeno il deterrente dell’aumento dei costi mano a mano che il processo va avanti, la grande società non ha nemmeno più interesse a transigere la controversia in corso di causa, essendo il costo del proprio legale, oltre che basso, forfetario, uguale a prescindere dal numero delle udienze (1, 5, 10 …).

 

La conseguenza, sotto il profilo del numero di giudizi, è quella di un ulteriore accrescimento delle cause pendenti; dal punto di vista degli avvocati è quello della perdita dell’autonomia del professionista, con la progressiva nascita di lavoratori parasubordinati (soprattutto giovani e donne) con partita IVA, sottopagati, privi e delle tutele sindacali e delle guarentigie dell’ordine .

 

Fatte queste necessarie precisazioni è evidente come il vero problema dell’avvocato oggi sia quello dell’irragionevole durata dei processi.

 

Nel settore del diritto civile la durata spropositata del giudizio, per lungaggini procedimentali ma soprattutto per la carenza di organico all’interno della magistratura, porta l’avvocato ad una sostanziale impossibilità nello svolgere il suo ruolo di tutore e difensore dei diritti dei cittadini e dell’impresa. Solo le rare volte in cui il cliente mette piede in Tribunale ed assiste ad udienze affollate, verbalizzazioni che si sovrappongono e soprattutto al rinvio della causa (inspiegabile per il cittadino) di mesi o anni, questi si rende conto della reale situazione di difficoltà nello svolgimento della nostra professione.

 
Il ritardo del giudizio viene invece spesso avvertito come un qualcosa di cui lo stesso avvocato è complice, con conseguente perdita di credibilità sociale della professione.

 

Si è visto invece come, in un processo civile in cui l’avvocato è sempre più legato all’esito del giudizio, l’eccessiva durata del processo danneggi direttamente anche il procuratore, oltre che l’assistito. E pensare che, da un recente studio fatto dal Movimento Forense, si è potuto verificare che se le varie udienze venissero fissate con tempi ragionevoli e “normali” il vigente codice di procedura civile garantirebbe la sentenza di primo grado in 15 mesi!

 
Quanto sopra anche per smentire superficiali esternazioni di autorevoli giornalisti, uno su tutti Bruno Vespa, che accusano gli avvocati di “speculare” sulla lunghezza dei processi (causa che pende causa che rende…).

 
Inoltre, sotto il profilo del cittadino, notevoli barriere economiche impediscono ai meno abbienti di avviare un procedimento giudiziario.
Soprattutto nel corso degli ultimi anni lo stato, per fare cassa, ha aumentato a dismisura il contributo unificato, “gettone” iniziale che una persona deve spendere solo per avviare un giudizio senza però destinare i ricavati al comparto giustizia.

 

Per fare un esempio concreto, un cittadino che riceva una cartella esattoriale di 5.200,00 euro (negli ultimi due anni ne sono state notificate oltre 36 milioni) ed intenda contestarla deve spendere solo per iniziare il giudizio 206,00 euro, senza considerare spese di notifica, marca, etc., limitando sostanzialmente l’accesso alla giustizia per le categorie più deboli. Una impresa che in materia di appalto deve impugnare un atto dinanzi al TAR, deve corrispondere un contributo unificato di ben €. 4.000,00, a prescindere dal valore, oltre ai costi della difesa tecnica.

 

Fino ad ora i provvedimenti che i vari Governi hanno adottato hanno tutti avuto un minimo comun denominatore: impedire al cittadino o all’
impresa di scegliere di andare in giudizio violando, tra l’altro, quanto sancito dall’art. 24 della Costituzione.

 

Su tutte, come anticipato, l’obbligatorietà della mediazione il cui fallimento è stato decretato da dati inesorabili (su 100 mila istanze solo il 15% ha avuto esito positivo).

 

Viene da chiederci, quale vantaggio hanno avuto i cittadini e le PMI che hanno speso denari per questo quarto grado di giudizio e non hanno conciliato? Anticipiamo che tra qualche tempo verrà spacciata l’utilità della mediazione giustificandola con il decremento delle cause iscritte a ruolo per gli anni 2011/2012, ma non verrà detto che questo è dovuto solo al fatto che le cause non potevano essere iscritte a causa della mediazione obbligatoria e che l’ottantacinque per cento delle mediazioni fallite si trasformeranno comunque in cause sebbene con almeno 4 mesi di ritardo !

 

E’ bene chiarire che la categoria professionale degli avvocati non è affatto contraria alle iniziative volte a deflazionare il carico di contenzioso, anzi, occorre soltanto individuare insieme degli strumenti che non compromettano i diritti costituzionalmente garantiti, ciò non a tutela degli avvocati ma dei cittadini.

 
Ma quali sono i correttivi che si possono auspicare:

Il problema è tutto nella eccessiva mole di lavoro che annualmente il sistema giudiziario italiano non riesce a smaltire sia per la numerosità dei casi, sia per le lungaggini procedimentali, sia per lo scarso numero di magistrati togati. L’irragionevole durata dei processi, oltre a cagionare danni alle parti processuali, causa infatti enormi costi per lo Stato (dal 2003 al 2010, fonte “Eurispes”, la spesa a titolo di risarcimento per il danno subito a seguito dell’eccessiva durata dei processi ammonta per lo Stato a circa 111 milioni di euro).

 

L’unica risposta auspicabile è quella di concentrare le risorse destinate al settore giustizia nell’arruolamento e nella formazione delle professionalità di magistrati preparati ed efficienti, che con una assegnazione adeguata di procedimenti possano contribuire ad evitare l’ampio numero di errori giudiziari che originano ulteriori spese per lo Stato con l’intasamento delle sezioni di Corte d’Appello in sede civile ovvero a titolo di riparazione per ingiusta detenzione in sede penale, solo per citare i casi più eclatanti..

 

E’ solo riportando la giustizia in Tribunali moderni e sotto l’impulso di magistrati preparati, vincitori di concorso ed in numero adeguato che si deve dare una risposta all’attuale empasse della giustizia, che contribuisce all’allontanamento dall’Italia di investitori nazionali e stranieri.

 

Si deve necessariamente invertire il processo di smaltimento dell’arretrato processuale con forme di sostanziale denegatio iustitiae:
basti pensare alla “rottamazione” dei vecchi ruoli civili con la creazione delle “sezioni stralcio”, al nuovo appello civile “vincolato”, creato in maniera tale da falciare con la formula dell’inammissibilità una gran massa di processi pendenti, alla incostituzionale media-conciliazione obbligatoria, alle figure di VPO che in sostituzione dei PM titolari dei procedimenti spesso vanificano anni di indagini.

 

E’ il magistrato preparato e specializzato l’unico in grado di “sfrondare” i procedimenti, indicando egli stesso dall’interno dei Tribunali forme di soluzione stragiudiziali e licenziando sentenze sostanzialmente inoppugnabili. Per fare ciò deve essere gravato da un numero di cause annue limitato che può studiare e risolvere approfonditamente ed in tempi brevi.

 

Ma ci rendiamo perfettamente conto delle difficoltà attuali, dell’urgenza e delle criticità, pertanto; ben venga allora l’implementazione del numero dei magistrati, liberando i togati già dalle fasi più semplici dei processi, quali la procedura monitoria ed esecutiva, da assegnarsi a GOT già in ruolo o di nuova e selezionata formazione.

 

Solo in questo modo l’avvocatura – che da parte sua deve comunque provvedere a riqualificarsi attraverso un’incisiva selezione nell’
accesso alla carriera forense sin dall’università ed una ricerca di formazione – può recuperare il suo ruolo di difensore e garante dei diritti e dei cittadini, delle persone e dell’impresa.

 

Chi scrive, pertanto, non è arroccato in posizioni corporative e protezionistiche. Consci dell’attuale situazione socio – economica non siamo, in assoluto, contrari ad esempio alla abolizione di sedi minori di uffici giudiziari in un’ottica di risparmio e taglio di spese ma ciò utilizzando criteri reali, territoriali, economici e con un occhio di riguardo a quei Tribunali baluardo della legalità in territori contaminati dalla criminalità organizzata. Il cittadino, soprattutto in questi luoghi, ha la necessità di trovare un conforto nel presidio giurisdizionale.

 

Ciò che di contro è necessario è però una maggiore modernizzazione ed informatizzazione degli uffici giudiziari che garantiscano all’avvocato l’accesso al fascicolo elettronico d’ufficio sia per il deposito degli atti che per l’estrazione di copie, evitando l’intasamento delle cancellerie e limitando l’accesso al Tribunale sostanzialmente al giorno dell’udienza. Un processo telematico esteso può portare efficienza a tutta la complessa macchina della giustizia, liberando da inutili incombenze magistrati, cancellieri ed ufficiali giudiziari e ottimizzando gli spazi.

 

Ma è sempre e solo nel Tribunale, moderno e snello che si deve svolgere la funzione giurisdizionale, il processo quale actus trium personarum, nel quale l’avvocato, conservando la propria autonomia ed indipendenza, dovuta soprattutto alla propria formazione, esterna all’
amministrazione ed ai poteri economici, è in grado di esercitare il proprio ruolo di giurista e difensore delle persona e dell’impresa media e piccola.

 

Uno stato che nega la giustizia diventa il suo contrario: “das recht” diviene “das unrecht”. E’ emblematico come i Romani, fondatori del diritto occidentale, lungi dal dare la definizione dei singoli diritti soggettivi definivano invece le singole azioni che il magistrato accordava (es. la rei vindicatio per la tutela del diritto di proprietà, la actio ex empto per i diritti derivanti dalla compravendita, etc), cioè avevano al centro della loro concezione giuridica lo strumento concreto per la tutela del diritto.

 
Viene alla mente il celebre aneddoto del Mugnaio di Saint Souci, che minacciato dalle rivendicazioni d’un feudatario opponeva, fiducioso, la presenza di giudici a Berlino.

 
I diritti sostanziali che poi non riescono a realizzarsi nella fase dinamica del processo e non hanno risposta dall’amministrazione pubblica della giustizia rimangono delle mere enunciazioni di principio, lettera morta che aumenta la sfiducia nelle istituzioni e paralizza l’economia dal nostro paese.

 

E per realizzare i diritti è quanto mai necessaria la presenza sul mercato di avvocati moderni, ma indipendenti e liberi.

 

Nei momenti di gravi crisi è proprio un avvocato indipendente a rappresentare la risorsa finale per la tutela della persona, nei suoi diritti di libertà, patrimoniali e verso lo stesso stato.

 

A Roma, in piena era “Sillana” fu proprio un giovane avvocato, Marco Tullio Cicerone, a far assolvere un innocente dall’accusa di parricidium, quando i veri assassini miravano alle proprietà del defunto protetti da un potente liberto dello stesso Silla (Oratio pro Sexto Roscio Amerino)

 

E’ emblematico come in Unione Sovietica fin dal 1920 fossero stati aboliti gli avvocati, potendo la parte ricevere difesa in un processo solo rivolgendosi a dipendenti pubblici (del partito!).

 

Per questo motivo, per concludere, bisogna che da una parte l’avvocatura si metta in discussione e non precluda riforme della professione che vadano nella direzione della modernità, dall’altra però è necessario tener conto della peculiarità della professione forense e della funzione sociale che svolge l’avvocato, evitando la definitiva trasmutazione della professione ad un ruolo condizionato e para- subordinato rispetto ai poteri forti, grave minaccia alla tutela stessa dei diritti dei soggetti più deboli.