INTERVENTO DOTT. GIORGIO SANTACROCE AL CONVEGNO AFEC NELL’AMBITO DELLA MANIFESTAZIONE “NATIVITY”

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N A T I V I T Y

(la pediatria incontra la famiglia)

Palazzo dei Congressi – via John Fitzgerald Kennedy, 1

00144 ROMA

AFEC: Associazione Forense Antonio Conte

p r e s en t a

DALLA CRISI CONIUGALE ALLA  SENTENZA

DI DIVORZIO

(riflessioni sulle dinamiche familiari e la ²patologia² del conflitto tra coniugi)

 

Roma, 21 settembre 2013 / Palazzo dei Congressi (sala C)

dalle ore 10,30  alle ore 14,30

 

 

Intervento di

GIORGIO SANTACROCE

Primo Presidente della Corte di Cassazione

 

 

Se l’amore è una cosa meravigliosa come ci hanno insegnato William Holden e Jennifer Jones in quello splendido film degli anni ‘60 che aveva proprio questo titolo, la fine di un amore è, di solito, una catastrofe che si gioca tutta in un confronto doloroso (e il più delle volte inutile) tra presente e passato, nella ricerca disperata e infruttuosa di un’ipotetica verità. Spesso diventa una catastrofe verbale per chi è lasciato, anche se il fiume in piena delle parole va verso un ricettore muto. Quando ci si affida totalmente alla persona amata, che a poco a poco diventa l’unica fonte di sicurezza e di benessere, l’essere lasciati equivale a una sorta di mutilazione dell’anima.

E vissero per sempre felici e contenti. E’ l’ultima riga delle favole dove, dopo mille peripezie, tutto finisce bene. Lui e lei s’incontrano, s’innamorano, si sposano, mettono al mondo una nidiata di figli e giurano di volersi bene per tutta la vita. Ma nessuno dice che cosa accade in seguito perché non interessa. O perché, forse, è impossibile. Pochi hanno raccontato l’amore felice, hanno scritto un romanzo del periodo in cui “vissero felici e contenti”. L’amore, il vero amore è stato rappresentato prima, nella ricerca, negli ostacoli, nella lotta contro il rivale o la rivale, nel dolore della distanza, nella paura di non essere riamati. La “passione” è tutta in questa fase preliminare dominata dal desiderio, dall’incertezza e dalla speranza. L’errore più comune è immaginare che l’amore e la reciprocità affettiva siano dati certi e acquisiti una volta per tutti. La storia non cambia neppure quando si passa dalle favole ai grandi romanzi (I promessi sposi, Guerra e pace, L’amante di lady Chatterley), perché l’amore è intenso nella ricerca, nell’attesa, nella lotta contro chi lo avversa, mai nella sua realizzazione gioiosa. Nelle fiabe e nei romanzi più rassicuranti l’amore è perfetto e completo, perché lui e lei non deludono, col passare del tempo sono sempre più uniti, non cambiano mai. Ma, nella realtà, le cose sono molto più complicate, perché la vita è fatta di cambiamenti, di sconfitte, di ipocrisie, di incomprensioni, di tradimenti.

Il tema degli amori infelici nella quotidianità, nel cinema, nei romanzi è inesauribile. Spesso, anzi quasi sempre, è inutile chiedersi chi dei due è colpevole del fallimento di un’unione. L’amore finisce perché nulla nel tempo resta uguale a se stesso. Tutto si trasforma, col passare del tempo ogni cosa si guasta e la tenerezza, il desiderio, la dedizione, ormai inutili e senza oggetto, diventano altrettanti veleni. E’ la vita stessa che costringe le persone a un inarrestabile cambiamento. Certo, ci sono casi in cui l’amore continua o riesce a rinnovarsi per moltissimi anni, per tutta la vita. Ma sono casi rari, accadono quando a un certo punto la lava incandescente si solidifica, la vie en rose riacquista i suoi colori abituali, e al posto dello spasimo, del batticuore, dell’attesa ardente subentra la tranquilla quotidianità, il “volersi bene”.

Ognuno di noi cresce, matura e si trasforma. L’amore in particolare è – secondo Antoine de la Salle – egoismo a due e si nutre di novità e di mistero. I suoi nemici sono il tempo, la ripetitività, l’abitudine, la noia e la monotonia della quotidianità. Spesso non ce la si fa più a continuare a vivere con la stessa persona. Anche se quando la storia è iniziata si era sinceri e disponibili a farla durare per sempre. Anche se all’inizio la volontà di stare insieme per tutta la vita c’era tutta.

Esplicito è Prévert ne ”Le foglie morte”: Ma la vita separa chi si ama / piano piano / senza far rumore / e il mare cancella sulla sabbia / i passi degli amanti divisi. Ma altrettanto esplicita è Antonella Pericolino, una giovane e valente poetessa romana, che ha raccolto le sue liriche in un recente volume che si intitola “Luci, ombre, sogni”. Sentite cosa scrive: Mi chiedo dove si disperdano tutte le parole, / le emozioni, gli attimi di vita condivisa / quando il percorso di due anime / si divide su binari paralleli / che non si incontreranno più.

L’amore è, dunque, qualcosa che può morire. Non sempre per insincerità o per un tradimento. Ma perché certe storie col passare del tempo si sono logorate, perché l’amore ha perduto la sua carica propulsiva. Molti cuori infranti piangono in realtà su storie finite da tempo, anche se non se ne erano resi conto.

L’amore può finire naturalmente, come se avesse esaurito la sua carica propulsiva. Altri amori restano sospesi per anni senza mai trovare la strada per un autentico distacco o si inabissano nel silenzio, all’improvviso uno dei due sparisce, nessun incontro, nessun messaggio, nessuna telefonata. Ci sono persone che spariscono per pura viltà, per egoismo, per assoluta mancanza di rispetto per l’altro. Ma le storie d’amore possono anche crollare miseramente sotto il peso di bisogni personali non appagati. Nel periodo dell’innamoramento si mette l’altro al posto del proprio “io” e, senza parlare, ci si capisce con gli occhi: l’emozione, accesa dal solo incontrarsi, sfuma tutto il resto, in un senso di leggerezza di vita. Ma il peso di molte aspettative non realizzate può trasformare la sensazione di leggerezza iniziale in delusione, disinteresse e pesantezza. Non sempre, insomma, l’amore corre in parallelo come le rotaie di un treno.

Un amore che finisce è una specie di terremoto emotivo perché nel tempo che si è vissuto insieme i due innamorati avevano costruito un progetto comune di affetti, di gusti e di desideri che si modellavano l’uno sull’altro. A sostenere l’intreccio c’era poi una più o meno fitta rete esterna, basata sui rapporti con le rispettive famiglie, con gli amici, con i luoghi e le persone a vario titolo più significativi. Un rapporto non è fatto solo di gesti d’amore, ma anche di abitudini condivise: di discorsi, di incontri, del modo di vestire, di ridere o di piangere. Quando un amore finisce tutto questo “sapere” reciproco va perduto e diventa inaccessibile. Quel progetto comune elaborato insieme si sbriciola, portando con sé tutto il carico di smarrimento e tristezza che nasce da un lutto.

Nel legame di coppia il partner è necessario alla stabilità dell’altro, col quale non c’è una semplice condivisione, ma una vera e propria fusione fisica e spirituale. Il linguaggio poetico dell’amore, del resto, ha al suo centro la mancanza, la perdita, lo spasimo dell’attesa, ed è sempre alimentato dalla sofferenza e dal patire. W.H. Auden ha descritto così i tormenti dell’abbandono nel bellissimo incipit di una sua poesia, che contiene tutta la disperazione di un amore che finisce: Fermate tutti gli orologi, isolate il telefono. / Lui era il mio Nord, il mio Sud, / il mio Est, il mio Ovest / la mia settimana di lavoro e il mio riposo la domenica / il mio mezzodì, la mia mezzanotte.

Gilbert Becaud ha descritto e messo in musica come nessun altro compositore tutto lo struggimento dell’abbandono, il vuoto incolmabile che provoca la perdita di un amore in quella bellissima canzone che è Et maintenant. Quando l’amore finisce, tutto è destinato a trasformarsi e a perdere significato. Si scolora perfino una città bellissima e romantica come Venezia, se è vero, come ha scritto Aznavour, che: i musei e le chiese si aprono per noi / ma non lo sanno che ormai tu non ci sei. / Com’è triste Venezia, di sera la laguna, / se ci cerca una mano che non si trova più.

 

La cifra del nostro tempo è proprio quella degli amori delusi, di narcisismi e sentimentalismi anonimi, spesso vissuti via web che impediscono i legami veri e inducono alla nostalgia dell’amore sperato e non realizzato. Gli ultimi dati forniti dall’Istituto Centrale di Statistica mostrano che c’è un vertiginoso aumento delle separazioni e dei divorzi. Secondo l’Istat, in Italia l’instabilità coniugale ha raggiunto cifre record, con un aumento delle separazioni (richieste soprattutto dalle mogli) dell’85,5% e dei divorzi (richiesti per lo più dai mariti) del 76,6 % negli ultimi dieci anni.

Non mi soffermo sulle cause di questo aumento. Sono state fornite in proposito diverse spiegazioni, nessuna per la verità veramente convincente. La nonna di Luciana  Littizzetto spiega così l’elisir di lunga vita: Per far funzionare una coppia bisogna mordere l’aglio e dire che è dolce. Oggi, evidentemente, questa regola di saggezza non tira più. Secondo Gianna Schelotto i divorzi sono in aumento perché non si ha più la capacità di affrontare le difficoltà della vita a due. Ma l’amore finisce anche a causa dei tempi difficili in cui viviamo. Perché Facebook e i nuovi mezzi di comunicazione elettronica non sono diventati solo cause di nuove infedeltà, ma sono diventati anche, e soprattutto, un nuovo strumento di prova, perché permettono di scoprire comportamenti e stili di vita che incidono sulle decisioni relative all’affidamento dei figli.

In Italia, tanto per far capire come stanno le cose, il tradimento è responsabile solo del 27% del fallimento delle unioni matrimoniali. La maggior parte dei tradimenti non approda negli studi legali e, quando ci arriva, spesso torna indietro, con il partner tradito pronto a colpevolizzarsi: probabilmente è colpa mia, non gli davo le attenzioni che chiedeva. Nella maggior parte dei casi i tradimenti si perdonano e il matrimonio non va più in frantumi per le corna. Quando due persone decidono di separarsi – ha spiegato un noto avvocato divorzista – il problema vero non è mai l’altra donna o l’altro uomo, anche se a loro sembra così. Quelle sono solo conseguenze

Nell’estate di quest’anno c’è stata un’ecatombe. Si sono separati Michael Douglas e Catherine Zeta-Jones, Monica Bellucci e Vincent Cassel, Clint Eastewood e Dina Ruiz. Prossimi a separasi sarebbero anche Stefano Accorsi e Laetitia Casta. Mancano solo Cenerentola e il Principe Azzurro. “Resteremo buoni amici” è la frase consolatoria che si scambiano.

La causa principale del game over nuziale è rappresentata in ogni caso dall’incompatibilità di carattere, cioè dal difficile adattamento reciproco, dalla noia, dalla mancanza di intesa sessuale, dall’incapacità di prendersi l’uno con l’altra, dalle frequenti precarietà economiche, dalla difficoltà di progettare il futuro che per di più tende ad allungarsi a dismisura per via del progressivo ed imponente allungarsi della vita. O dalle fissazioni e dalle manie di uno dei coniugi. Come nel caso di quella moglie di Savona ossessionata dagli oroscopi, al punto da condizionare la vita familiare e l’educazione dei figli alle indicazioni dei segni zodiacali. Dal metodo Montessori a quello Barbanera, insomma. Più spesso però ci si separa perché il matrimonio ha esaurito la sua funzione: i coniugi non hanno più niente da dirsi oppure ne hanno ancora molta, ma ne hanno perso la voglia.

Il punto vero però è un altro; e riguarda il modo di separarsi e di divorziare, che è diventato sempre più cruento.

Mi separo o divorzio da te e ti distruggo. E’ questa sempre più spesso la strategia di chi si lascia. Annientare l’ex coniuge, colpirlo a 360 gradi sul fronte economico e su quello psicologico. Oltre ogni limite e oltre ogni buon senso. Manovrando i figli con spaventosa lucidità. Aizzandoli contro l’altro genitore con calunnie, ripicche, manipolazioni e crudeltà impensabili. Molte donne si inventano che il marito, fin dai primi mesi del matrimonio, aveva rapporti sessuali con minorenni. O che ha manifestato durante il matrimonio tendenze pedofile. Così, solo per avvelenare il clima e mettere il coniuge all’angolo. Del resto, oggi ci si scanna sul lavoro, tra amici. Anche in politica trionfa il modello della rissa continua. Logico che i sentimenti seguano lo stesso schema.

Il divorzio e, prima di lui, la separazione, sono sicuramente un lutto devastante, uno choc a base di scorie tossiche, come li ha definiti qualcuno. Il divorzio in particolare è diventato un contenitore di rabbia, sofferenza e depressione. La parola esatta – spiega Vittorio Cigoli, autore del saggio “Psicologia della separazione e del divorzio” (Il Mulino, 2008) – è patologia. In certi casi la perversione cresce nel matrimonio ed esplode con la separazione. Altre volte è l’abbandono a fare da detonatore.

La cronaca rivela storie estreme, aggravate dai limiti del nostro sistema giudiziario che ha tempi lunghissimi. L’attuale legge sul divorzio, che risale al 1970, è considerata da molti superata, ma contribuisce anzi a protrarre un terreno di scontro infinito, una guerra dei trent’anni in cui ognuno resta prigioniero dell’altro, con i figli che si trasformano in “migranti” dell’affido condiviso. Un giudizio più rapido smorzerebbe la conflittualità: e invece ci vogliono tre mesi per accedere all’udienza presidenziale, più i tre anni tassativi per ottenere il divorzio, più i sei-nove mesi che passano in media tra la prima udienza e l’istruttoria, più il tempo imprevedibile per ottenere la sentenza definitiva. L’ideale sarebbe, secondo Robert E. Emery (autore del libro “La verità sui figli e il divorzio: gestire le emozioni per crescere insieme”, Franco Angeli, 2008), la mediazione familiare, cioè far sedere a uno stesso tavolo lui e lei per trovare un accordo. Magari provando a far ricordare loro che cosa li ha fatti innamorare. Il che, sia chiaro, non lenisce il lutto della separazione, ma consentirebbe di raggiungere forse una soluzione condivisa nell’interesse dei figli, evitando certe astuzie infami. In America vige il consiglio: cercate di amare i vostri figli più di quanto odiate il vostro ex.

L’incapacità del nostro sistema giudiziario di somministrare in tempi ragionevoli i torti e le ragioni infligge poi un danno ulteriore alla qualità della vita di molte coppie. A conferma che esiste una burocrazia dei sentimenti, non meno inetta di altre burocrazie che ci tengono in ostaggio nel paese. La sua inefficienza colpisce dove fa più male, dove c’è già una ferita aperta da un matrimonio che è fallito.

E’ certo che un “divorzio breve”, indirizzato a ridurre i tempi per sciogliere definitivamente il vincolo coniugale (dagli attuali tre anni a un solo anno l’intervallo per chiedere in modo consensuale il divorzio, raddoppio dell’intervallo a due anni se ci sono figli minori), aiuterebbe a semplificare le cose. Tanto più che il divorzio breve avvicinerebbe l’Italia alle altre legislazioni europee in materia di diritto di famiglia. In Francia per sancire la fine di un’unione bastano da tre a sei mesi. In Germania tutto accade dopo un anno, senza più tornare davanti ai giudici. Il divorzio è cioè automatico. Divorzi sprint ci sono anche in Grecia, in Romania e nella cattolicissima Spagna, dove non solo bastano sei mesi per dirsi addio, ma dal 1998 perfino le unioni di fatto sono riconosciute a pieno titolo.

La proposta del processo breve non piace però ai molti “paladini del matrimonio” di ispirazione cattolica, che vedono in questo tipo di divorzio una  minaccia all’istituto della famiglia, un vulnus immotivato alla tutela della parte debole del rapporto di coniugio. Non va giù l’idea che vengano introdotte procedure più flessibili e meno complicate, perché un anno soltanto non lascerebbe tempo per la maturazione di una libertà di scelta adeguata, comprimendo i diritti del coniuge più debole, costretto a subire le scelte imposte dall’altro. Viene spontaneo rispondere che nella maggior parte dei casi l’amore è finito da tempo e il divorzio è solo un atto formale che sancisce un momento di rottura risalente nel tempo. Quando si arriva alla separazione e si bussa alla porta dell’avvocato, di solito non si torna più indietro. L’attesa di tre anni per ottenere il divorzio diventa allora solo un’assurda pausa di meditazione che non serve a nessuno. E’ soltanto una cappa di piombo.

Lo snodo cruciale riguarda però l’affidamento dei figli. Amati, amatissimi a chiacchiere. Gli ex coniugi li gestiscono e li spartiscono come se fossero cose, incuranti dei risvolti dolorosi dei loro contrasti, dimenticando che se ci si separa come coniugi, si deve continuare ad essere una “coppia genitoriale”.

La casistica giurisprudenziale offre esempi terribili di separazioni e divorzi che si trasformano in vere e proprie battaglie in cui i figli diventano pedine nelle mani dei genitori e vengono manovrati a vantaggio dell’uno o dell’altra.

Fino al 2006 la legge prevedeva che il giudice scegliesse il genitore a cui destinare i figli, premiando di regola la madre, specie quando erano piccoli. Oggi la situazione, con la legge n. 54, è solo leggermente migliorata. Il magistrato valuta innanzitutto se i figli minori possono essere affidati ad entrambi i genitori (c.d. affido condiviso), ma la soluzione, impeccabile sulla carta, lo è molto meno nella pratica dove si è rivelata un autentico bluff. I figli continuano a vivere di solito con la madre e il padre resta escluso da molte scelte quotidiane. Migliore fortuna tocca ai cani che, specie nelle coppie senza figli, sono sempre più dei “sostituti” nei quali i coniugi investono gran parte del loro affetto, creando legami che resistono anche alle burrasche matrimoniali, favorendo un affido congiunto.

Da tutto questo derivano sfiducia reciproca e desiderio di delegittimazione. Con eccessi che provocano una serie di sindromi, studiate negli Stati Uniti e rimbalzate in Italia. Gli americani hanno scoperto la “sindrome da madre malevola” che la psicologa Anna Oliverio Ferraris spiega così: si tratta di un’anomalia globale del comportamento, basata sulla manipolazione psicologica dei figli, la vessazione del partner attraverso gravi accuse infondate e la disponibilità ad andare anche contro la legge (“Dai figli non si divorzia”, Mondadori, 2007). Ancora più subdola è la “sindrome di alienazione genitoriale” (parental alienation), dove la madre o il padre indottrinano i figli per screditare l’ex coniuge, spingendo i figli a veicolare calunnie.

Gli ultimi dati raccolti dall’AMI, l’associazione matrimonialisti italiani, offre dati raccapriccianti. Padri e madri che uccidono i figli pur di non vederli affidati all’altro genitore diventato nemico dopo la separazione o il divorzio. Adulti che si suicidano insieme ai piccoli per evitare il distacco deciso da una sentenza di divorzio o semplicemente dalla scelta degli stessi bambini di voler vivere con uno dei due genitori. Marito che ammazza la moglie (ma avviene anche il contrario) per farle pagare l’abbandono della famiglia, la decisione di chiudere il matrimonio.

E qui si tocca un altro tema assai caldo. L’incapacità di rassegnarsi alla perdita dell’amore. O a un amore non ricambiato. C’è chi dimentica e si consola facilmente e c’è chi invece non sa accettare l’abbandono o il rifiuto e fa di tutto per cercare di riconquistare l’amato bene. L’amore perduto o rifiutato può diventare una malattia. L’abbandono o il rifiuto è più traumatico per l’uomo, che quando perde il corpo rassicurante dell’amata, vede nel benservito dato da una donna un attentato inammissibile alla sua identità virile e non si dà pace fino a che non la ritrova. Così finisce per perseguitarla in modo molesto, ossessivo, pericoloso, a ogni ora del giorno e della notte, in nome di un fantomatico “amore ferito”: con telefonate mute e non, sospiri via cavo, sms e lettere ricattatorie, pedinamenti, appostamenti sotto casa, incursioni in ufficio, inseguimenti, strattonate, minacce di morte, schiaffoni e spiate, gomme squarciate, freni dell’auto tagliati, diffusione di immagini private su Internet o di foto intime affisse sui muri della città. Il fatto è che certi uomini identificano l’amore con il possesso e non tollerano lo scatto di indipendenza della donna che credevano di loro proprietà. La paura di perdere ciò che si ritiene proprio scatena l’odio, il rancore e la voglia di vendetta. Con un solo scopo: lasciare ovunque tracce della propria presenza, come le scatole vuote di sigarette inglesi lungo il sentiero dove lei porta a spasso il cagnolino, “imitando Pollicino”. Se lo strumento di pressione più gettonato è la telefonata (con o senza sospiro-mugolio ansimante) che piace tanto agli sceneggiatori di thriller, le nuove tecnologie consentono di usare anche sms e e-mail. Se i molestatori meticolosi restano fedeli alle lettere scritte a mano, i più arrabbiati scelgono il pedinamento o il danneggiamento dell’auto o della buca delle lettere della malcapitata o del malcapitato di turno. Fino a sfociare a volte nell’omicidio, visto come una forma estrema di controllo della vita di una persona. Il fine è sempre lo stesso: distruggere l’altro che non mi vuole più.

Purtroppo le emozioni soffocate permangono nell’anima come un potenziale energetico che, buttato fuori dalla porta della coscienza, rientra dalla finestra dell’inconscio. All’incapacità di vivere l’amore fa seguito la difficoltà di accettarne la fine, di elaborarne il lutto. Nella indistinzione tra il bene e il male, la sofferenza viene sostituita dalla insofferenza. “E’ l’insofferenza – diceva Fromm – il nuovo disumano”. Una disumanità che a volte si esprime nel modo più tragico, nel “femminicidio”, nella uccisione delle donne “per amore” come sostengono i loro assassini, dove il farmaco si traduce in veleno e la vita precipita nella morte. Ci sono uomini che non sono capaci di sopportare il dolore della perdita, la ferita inflitta dal “mai più”. L’esperienza troncata ha finito per esasperare le componenti più pericolose della relazione tra i due sessi, il possesso e il potere, sino a farlo esplodere nell’omicidio.

Io mi fermo qui, sperando di aver tracciato, sia pure a volo d’uccello, una panoramica ampia seppure incompleta dei temi che sono oggetto del convegno di oggi. Spetterà alle avvocatesse Cristiana Arditi di Castelvetere e Livia Rossi, all’avvocato Michele Arditi di Castelvetere e alla dottoressa Goscia approfondire ciascuno degli spunti che ho toccato.

All’avvocato e amico Antonio Conte e a tutti gli organizzatori il ringraziamento più sentito per avermi invitato a prendere la parola in questo interessante convegno, che è di palpitante attualità.

Grazie dell’attenzione e buon proseguimento.

Antonio Conte

Antonio Conte nato a Roma il 30/8/63, successivamente agli studi classici, svolti al Convitto Nazionale Romano, ha conseguito laurea in Giurisprudenza a pieni voti, in data 22/7/88 presso la facoltà di Giurisprudenza dell’Università “La Sapienza” di Roma.
Ha ricoperto incarichi accademici, e precisamente ha collaborato con diverse Cattedre dell’Istituto Diritto Privato dell’Università “La Sapienza” di Roma, per un periodo di oltre 12 anni dal 1989 al 2001.
Per quanto attiene alla professione forense lo stesso è abilitato all’esercizio dal 31/10/1991.
Inoltre, ha esercitato la carica di Vice Pretore Onorario, presso la I° Sezione della Pretura Civile di Roma, via Lepanto 4, con ruolo personale confermato nel triennio 1994 - 1997.
Nel febbraio dell’anno 2000, il sottoscritto Antonio Conte è stato eletto Consigliere dell’Ordine degli Avvocati di Roma per il biennio 2000/2001, risultando il più giovane Consigliere mai eletto all’Ordine di Roma, con oltre 1.300 preferenze.
Altresì è stato eletto Delegato del Consiglio dell’Ordine di Roma negli ultimi tre Congressi Nazionali dell’Avvocatura e del Consiglio Nazionale Forense, sempre eletto a grandissima maggioranza dagli Avvocati Romani. Inoltre, sono stato per oltre due anni nel direttivo dell’AIGA (Associazione Italiana Giovani Avvocati), espressione qualificata della giovane Avvocatura Romana.
Eletto Consigliere dell’Ordine dal 2004 ad oggi, ricoprendo la carica di Segretario per quattro anni e Presidente per due.
Attualmente ricopre la carica di Consigliere essendo stato eletto con poco meno di 4000 voti nello scorso febbraio 2012.