DI ALESSANDRO MARIA LERRO
Il 31.10.2012 la Camera dei Deputati ha approvato e trasmesso al Senato il progetto di riforma della professione forense (A.C.3900-A). La bozza di riforma è stata accolta da una parte con un sospiro di sollievo per l’accantonamento di ipotesi normative che avrebbero snaturato la funzione costituzionale dell’avvocato, e dall’altra con grande attenzione ad alcune importanti modifiche di governance (CNF, Ordini, disciplina, specializzazioni, accesso alla professione). Tuttavia ciò ha distratto l’attenzione dei commentatori da altri temi di grande rilevanza.
Per quanto riguarda i principi che regolano l’esercizio della professione, osserviamo una serie di lacune, errori e superficialità che dimostrano come il legislatore sia lontano dal mondo forense, oltre che sempre più scarso quanto a tecnica legislativa. Il testo è verboso, confuso, inutilmente complesso e perde spesso la focalizzazione.
1) E’ subito interessante notare che il progetto di legge afferma di garantire l’indipendenza e l’autonomia degli avvocati: peccato che non si capisca come. Invero tali valori si proteggono:
a) con una seria disciplina del segreto professionale;
b) mettendo l’avvocato in condizioni di avere il rispetto del mondo giudiziario e sottraendolo a possibili pressioni ambientali.
Quanto al primo punto, una delle maggiori occasioni perse di questa riforma è proprio la disciplina del segreto professionale, l’unico vero baluardo per l’indipendenza e l’autonomia dell’avvocatura. Invece che un limite per i terzi, esso è solo un dovere per l’avvocato, con tanto di licenziamento del collaboratore e procedimento disciplinare in caso di violazione. Tuttavia, mentre l’avvocato non può testimoniare, le carte sequestrate nel suo studio sono utilizzabili, così come quelle eventualmente rubate dal Tribunale.
Invero, la nuova disciplina del segreto, celebrata dal Presidente del CNF come una grande conquista, tace sulla sorte di chi violi il segreto professionale dell’avvocato, di chi sottragga documenti, di chi vada a spulciare illegittimamente le carte di un processo. Nessuna menzione riguardo alla sorte di chi si introduca con la forza, l’inganno o un provvedimento di perquisizione ed acquisisca materiali coperti dal segreto professionale.
Sotto il secondo profilo, l’indipendenza dell’avvocato dipende anche dal rispetto per l’avvocatura, che spesso è carente soprattutto da parte degli uffici giudiziari, come ben sa chi li frequenta: avvocati anziani costretti ad arrampicarsi sugli scaffali per prendere pesanti fascicoli, file che iniziano di notte, attese interminabili in ambienti inadeguati, oltre, purtroppo ad una non rara arroganza di certi magistrati. Molti rinunciano all’indipendenza in favore della sopravvivenza.
Mentre in Parlamento si discute di autonomia ed indipendenza, di alta funzione sociale, di dignità e decoro della professione, si arriva ad estremi, quali la recente sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Roma, che ha dimezzato la pena all’assassino dell’avvocato Massimo Pallini, ucciso a Cassino nell’ottobre 2010 con sei colpi di pistola, da un cliente insoddisfatto dell’esito di una causa possessoria, reo confesso. La Corte ha escluso l’aggravante dei futili motivi; come dire che uccidere l’avvocato che (forse) ha commesso degli errori è un motivo serio che, in certa misura, può giustificare l’omicidio.
Peraltro, l’art. 2, che contiene la c.d. riserva sulla consulenza stragiudiziale, inspiegabilmente limita “libertà, autonomia e indipendenza” del difensore escludendo gli arbitrati irrituali la mediazione ed escludendo la consulenza, quando non sia connessa all’attività giurisdizionale, cioè quasi sempre, e quando non sia svolta in modo continuativo, sistematico e organizzato (combinato disposto dei commi 1, 5 e 6).
2) All’art. 3 per la prima volta, un po’ surrettiziamente, si parla di “corretta e leale concorrenza”; il principio è sempre stato assorbito da valori fondamentali della professione (dignità, decoro, colleganza), mentre quello che tecnicamente si chiama “rapporto concorrenziale” era riservato agli imprenditori, unici destinatari della disciplina della concorrenza; la novità apre chiaramente la porta al vaglio dell’Antitrust, probabilmente già pronta a dire la sua su come operano gli avvocati, oltre che sulla pubblicità apertamente ammessa dall’art. 10. Non è detto che sia un male, anzi. Ma forse un po’ più di trasparenza in proposito non guasterebbe. E soprattutto un po’ di chiarezza su chi vestirà la toga del censore: l’Antitrust o gli organi di disciplina?
3) La questione delle società tra professionisti viene liquidata con una laconica delega al Governo. Ma ci sia consentita una domanda: se gli avvocati possono costituire una società, i soci e gli amministratori possono essere solo avvocati ma … non possono essere amministratori di società (restando vigente la stessa vecchia regola del 1933, nel nuovo art. 18), chi gestisce la società? Forse è il caso di superare certe incompatibilità di facciata, figlie del secolo scorso.
4) Finalmente viene sancita l’obbligatorietà dell’assicurazione per la responsabilità professionale, in linea con alcune anticipazioni dei vari provvedimenti “salva Italia”. In proposito, se l’avvocato che eserciti in forma societaria mantiene comunque una responsabilità illimitata, perché mai dovrebbe costituire una società con responsabilità limitata? Visto che vi è – finalmente – un’assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile forse si potrebbe superare il concetto di responsabilità personale ultra vires. Magari … potrebbe essere regolata come quella dei magistrati!
5) Ci si chiede poi che senso abbia l’obbligo di polizza infortuni per sé e collaboratori, oltre a generare un appetitoso mercato per le compagnie di assicurazioni. La nostra potente e celebrata “casta” è l’unica che si deve assicurare per lo scivolone o per la caduta accidentale, persino fuori dallo studio. Evidentemente l’assicurazione della macchina o del motorino non sono sufficienti; magari il collaboratore inciampa sui lembi della toga o si ustiona con il caffè … e la “casta” paga! E ricordiamoci di comunicare gli estremi della polizza e ogni sua variazione all’ordine, altrimenti commettiamo un illecito disciplinare. E’ veramente paradossale che mentre emerge in tutta la sua evidenza la pressione del mondo assicurativo per contenere i costi legali, gli avvocati debbano invece aumentare i loro costi assicurativi.
6) Di tariffe si è parlato tanto e si continua a discutere. Sarebbe interessante che il legislatore ci spiegasse perché al comma 3 dell’art. 13 si prevede la legittimità del compenso a percentuale e al comma 4 lo si vieta: per favorire le opposizioni da parte dei clienti morosi?
Ma ciò che veramente è inaccettabile è che il cliente vittorioso in giudizio non abbia diritto a farsi pagare dal soccombente tutte le spese legali, che secondo lo stesso art. 13 sono liberamente concordate tra cliente e avvocato, ma piuttosto quanto risulta dai parametri ministeriali, in aperta violazione di quanto previsto dal principio risarcitorio. Vale a dire: un mascalzone trascina in giudizio un cittadino e lo costringe ad anni di contenzioso, e ha anche il diritto di pagargli una modesta frazione delle spese legali che la sua vittima ha sostenuto. Chi punisce questa norma? La presunta “casta”? La norma danneggia solo e soltanto il cittadino che aveva ragione, già punito una volta dal comportamento del mascalzone ed una seconda volta da quello dello Stato, che non gli garantisce Giustizia in tempi ragionevoli.
7) Un altro tema delicato è quello della permanenza dell’iscrizione all’albo: essa è subordinata all’esercizio della professione in modo “effettivo, continuativo, abituale e prevalente”. La domanda è: quanto? Si rinvia ad un regolamento per non affrontare il problema ma, soprattutto in tempi di crisi, non si può glissare su una questione così spinosa. Vista la libertà e l’autonomia della professione, l’avvocato che attraversi una fase di difficoltà e non riesca ad avere lavoro non solo avrà un problema evidente di sussistenza, ma dovrà anche affrontare l’Ordine per mantenere la possibilità di esercitare la professione.
E’ un tema complesso che coinvolge anche la qualificazione come cassazionista (secondo il vecchio regime) e la previdenza. In proposito, nell’atteggiamento governativo stridono da una parte l’apertura verso la concorrenza, il mercato, la libertà di azione e posizionamento, l’approccio quasi imprenditoriale, e al contempo, dall’altra parte, la chiusura su posizioni protezionistiche e di sbarramento quali quelle che emergono dalla disciplina della continuità professionale.
8) Curioso notare che l’art. 2 menziona diversi principi fondamentali, come cardini della professione (indipendenza, lealtà, probità, dignità, decoro, diligenza e competenza), che tuttavia si vaporizzano nell’impegno solenne (il “giuramento”) di cui all’art. 8, nel quale non sono menzionati l’indipendenza, la probità il decoro e la competenza.
Poi vi sono una serie di errori, sviste, contraddizioni, errori terminologici, pleonasmi; ad esempio vi è una dirompente affermazione: l’avvocato “è soggetto alla legge e alle regole deontologiche” (art. 2.4). E chi l’avrebbe detto?! Ma anche che il codice deontologico è reso accessibile a chiunque (neanche fosse un regolamento massonico!); che l’avvocato può difendere se stesso (art. 13); che l’incarico può essere svolto a titolo gratuito (art. 13); che l’avvocato è libero di non accettare l’incarico (art. 14). E ancora: un’associazione di professionisti che non coinvolga avvocati ma che indica tra le proprie attività quelle tipiche della professione forense, commette illecito disciplinare: ma se non ci sono avvocati chi viene sanzionato, visto che il sistema disciplinare è limitato agli iscritti all’Ordine?
Il paradosso è che gli avvocati sono costantemente accusati di essere una “casta” e di infoltire i banchi del Parlamento, e questa riforma sembra scritta da persone che non solo non conoscono l’italiano (e purtroppo a questo ci stiamo abituando), ma che non hanno la benchè minima idea di cosa sia e debba essere la professione forense.