La Corte europea dei diritti dell’uomo ha recentemente condannato l’Italia per violazione dell’art. 8, sanzionando l’operato dei suoi tribunali, rei di non aver posto in essere misure efficaci e rapide al fine di tutelare il diritto di visita di un padre separato.
L’iter giudiziario italiano
Il ricorso alla Corte di Strasburgo trae le proprie origini da una triste quanto comune vicenda giudiziaria all’italiana. Un uomo, a seguito della decisione di separarsi dalla moglie, lasciava la casa familiare, incontrando da allora una forte opposizione della stessa a qualsiasi contatto padre-figlio. Il padre ricorreva pertanto al Tribunale per i Minorenni di Brescia, lamentando oltre alle predette circostanze anche un comportamento pregiudizievole della madre verso il minore – la quale continuava ad allattare il bambino, nonostante avesse già più di 5 anni, e a dormire con lui – e chiedendo pertanto il suo affido in via esclusiva, all’esito di una perizia. La madre, costituitasi, contestava la fondatezza di tali accuse, affermando che il padre si era da sempre disinteressato del figlio e chiedendo pertanto la sua decadenza dalla responsabilità genitoriale.
Il Tribunale, investito della questione, disponeva pertanto una perizia psicologica, dalla quale emergeva l’opportunità di un affido condiviso, affiancata ad una procedura di mediazione familiare, e dell’esercizio del diritto di visita da parte del padre senza la presenza della madre.
Il Tribunale, conseguentemente, aderendo parzialmente alle risultanze della predetta perizia, decideva di affidare il minore ad entrambi i genitori, con collocamento prevalente presso la madre, concedendo al padre di vedere il figlio due giorni alla settimana. La decisione veniva impugnata, senza successo, da ambedue gli ex coniugi dinnanzi alla Corte d’Appello, che confermava pertanto le statuizioni del giudice di primo grado.
Decorsi pochi anni, il padre adiva nuovamente il Tribunale chiedendo che il figlio potesse trascorrere con lui le prossime vacanze pasquali. Il Tribunale, in tale occasione, accoglieva la domanda del ricorrente, respingendo la successiva richiesta di revoca presentata dalla madre. Successivamente il Tribunale, dando atto della volontà del minore a passare più tempo con il padre, pernottando altresì presso di lui, dell’atteggiamento ostruzionistico persistente della madre e dell’assenza di una sua collaborazione con i servizi sociali, estendeva il diritto di visita e di alloggio anche ad un fine settimana alternato, incaricando i servizi sociali di monitorare il rispetto di tali prescrizioni.
La madre, tuttavia, continuava ad opporsi a qualsiasi incontro padre-figlio senza la sua presenza, impedendo di fatto l’esercizio del diritto di visita stabilito dal Tribunale. Tale condizione, a detta del padre, lo spingeva non solo a rifiutarsi di vedere il figlio e di tenerlo con lui ma anche a contattarlo telefonicamente e a passare con lui le vacanze. All’esito di ulteriori ricorsi presentati dai due genitori, la madre veniva autorizzata a trasferirsi a Torino, per motivi economici e di opportunità, alla luce anche del mancato esercizio del diritto di visita da parte del padre. Veniva rigettata, invece, la domanda dell’ex moglie di decadenza del padre dalla responsabilità genitoriali sul minore. Nei mesi successivi il padre persisteva nel suo rifiuto di collaborare con i servizi sociali di Torino e di vedere il figlio, nonostante la prescrizione da parte del Tribunale di incontri protetti, pertanto, senza la presenza della madre.
Il ricorso alla Corte europea
Il ricorrente decideva pertanto di adire la Corte EDU lamentando la violazione dell’art. 8 della Convenzione, dal momento che le autorità italiane avrebbero tollerato il comportamento inaccettabile posto in essere dalla madre – volto ad ostacolare il libero esercizio di visita da parte del padre e “…aizzare il minore contro di lui” – in aperta violazione delle condizioni fissate dal tribunale italiano.
I principi individuati dalla Corte
La Corte, investita della questione, chiarisce preliminarmente come lo scopo dell’art. 8 CEDU sia quello di “ …premunire l’individuo contro le ingerenze arbitrarie dei pubblici poteri ”, garantendo il rispetto della vita familiare, inclusiva altresì del rispetto delle relazioni reciproche tra individui, tra cui le relazioni tra genitore non convivente e figli.
A tal fine, l’articolo in oggetto “…non si limita a imporre allo Stato di astenersi da simili ingerenze: a questo impegno piuttosto negativo possono aggiungersi obblighi positivi inerenti a un rispetto effettivo della vita privata o famigliare”. Tra tali misure positive la Corte individua anche “…la predisposizione di strumenti giuridici adeguati e sufficienti ad assicurare i legittimi diritti degli interessati, nonché il rispetto delle decisioni giudiziarie ovvero di misure specifiche appropriate…idonee a riunire genitore e figlio, anche in presenza di conflitti fra i genitori”, richiamando sul punto una sua sterminata giurisprudenza (ex multis, Ignaccolo-Zenide c. Romania, n. 31679/96, § 108, CEDU 2000 I, Sylvester c. Austria, nn. 36812/97 e 40104/98, § 68, 24 aprile 2003). Tali obblighi positivi, chiarisce la Corte, “…non implicano solo che si vigili affinché il minore possa raggiungere il genitore o mantenere un contatto con lui, bensì comprendono anche tutte le misure propedeutiche che consentono di giungere a tale risultato”.
Fondamentale poi, ad avviso della Corte, ai fini dell’adeguatezza delle predette misure è la rapidità con cui le stesse vengano attuate “…in quanto il trascorrere del tempo può avere conseguenze irrimediabili per le relazioni tra il minore e il genitore che non vive con lui”. Di contro, l’infruttuosità delle misure adottate al fine di riunificare padre e figlio non comportano automaticamente la violazione da parte dello Stato membro degli obblighi ex art. 8 CEDU e ciò in considerazione, da un lato, del carattere non assoluto di tale diritto e, dall’altro, dalla necessità di considerare altresì il comportamento e la comprensione tenuta da tutte le persone coinvolte nel caso concreto. Di fatti, alle autorità non è consentito, se non in via del tutto residuale e limitata, l’utilizzo della coercizione, dovendo le stesse tenere sempre in primaria e prevalente considerazione il diritto superiore del minore. Al fine di giudicare la legittimità dell’azione delle istituzioni, dunque, si dovrà verificare da un lato l’adozione di “…tutte le misure neessarie che ragionevolmente era possibile attendersi da loro per mantenere i legami tra il ricorrente e suo figlio…” (sul punto si veda anche Manuello e Nevi c. Italia, n°107/10, § 52, 20 gennaio 2015) e, dall’altro, “…esaminare il modo in cui le autorità sono intervenute per agevolare l’esercizio del diritto di visita del ricorrente come definito dalle decisioni giudiziarie (sul punto Hokkanen c. Finlandia, 23 settembre 1994, § 58, serie A n. 299 A, e Kuppinger c. Germania, n. 62198/11, § 105, 15 gennaio 2015).
Applicazione di questi principi al presente caso
Passando poi all’applicazione dei suddetti principi, la Corte ritiene necessario distinguere tra due periodi distinti.
Nel primo periodo, compreso tra la separazione iniziale e la manifestazione da parte del padre della volontà di non esercitare più il diritto di visita, la Corte ha ritenuto che il diritto di visita del ricorrente sia stato gravemente pregiudicato dall’operato delle autorità, le quali, nonostante fossero consapevoli del comportamento consapevolmente ostruzionistico tenuto dalla madre, non avevano posto in essere misure adeguate a “…creare le condizioni necessarie alla piena realizzazione del diritto di visita del padre” e “…misure utili ai fini dell’instaurazione di contatti effettivi”. In particolare la Corte, pur riconoscendo le elevate difficoltà del caso di specie a seguito della conflittualità acerrima tra i genitori, ha ritenuto che la mancanza di cooperazione tra gli stessi “…non possa dispensare le autorità competenti dall’utilizzare tutti gli strumenti atti a consentire il mantenimento del legame familiare” (si vedano Fourkiotis c. Grecia n. 74758/11 § 72, 16 giugno 2016).
Per quanto attiene invece al secondo periodo, terminante con la presentazione del ricorso dinnanzi alla Corte, la stessa ha ritenuto insussistente la violazione dell’art. 8 CEDU in quanto i servizi sociali, incaricati dal Tribunale di vigilare sulla questione, avrebbero profuso “…tutti gli sforzi che si poteva ragionevolmente attendersi da loro per garantire il rispetto del diritto di visita del ricorrente, conformemente alle esigenze del diritto al rispetto della vita familiare garantito dall’articolo 8 della Convenzione”. Di contro, invece, sarebbe stato proprio il padre ad assumere da allora “…un atteggiamento negativo poiché ha prima annullato diversi incontri e poi ha deciso di non partecipare più alle visite”.
Da ultimo, la Corte rigetta la richiesta di risarcimento del danno morale presentata dal ricorrente, ritenendo “…che la constatazione di una violazione fornisce di per sé un’equa soddisfazione sufficiente per qualsiasi danno morale eventualmente subito…”.
Cliccare di seguito per il testo del provvedimento CEDU Giorgioni c. Italia, sentenza del 15 settembre 2016, ric. n°43299/12