Le Sezioni Unite – con sentenza n°22253 del 25 settembre 2017, pubblicata il 1° novembre 2017 – sono tornate in questi giorni a pronunciarsi sui limiti entro i quali la testimonianza dell’avvocato avverso il proprio cliente debba considerarsi pienamente legittima e conforme ai doveri deontologici del difensore.
La vicenda vede come protagonista un collega meneghino il quale, dopo aver difeso in un procedimento per possesso di stupefacenti una cliente, sig.ra C.B., instaura con quest’ultima un rapporto di amicizia. Conclusosi il mandato, tuttavia, l’ex cliente maturando una forte gelosia nei confronti della nuova collega di studio di quest’ultimo, avv. A.S., iniziava ad ossessionarla mediante continue telefonate. L’avv. A.S. decideva pertanto di querelare la sig.ra B. citando come testimone il collega, il quale riferiva che la sig.ra C.B. “…era affetta da ‘una sorta di compulsività maniacale’ e da ‘mania di persecuzione’, che aveva in passato oltraggiato un agente di custodia e che, infine, aveva gravemente e reiteratamente insultato il predetto avvocato A.S.”.
Il Consiglio dell’Ordine di appartenenza, con deliberazione del 1° luglio 2013, decideva di sospendere il collega dall’esercizio della professione per mesi due, addebitandogli di “Essere venuto meno ai doveri di lealtà per avere reso testimonianza, su fatti appresi nell’esecuzione del mandato, contro la ex cliente sig.ra C.B., in un procedimento penale…”. Detta decisione veniva confermata dal Consiglio Nazionale Forense con sentenza del 31 dicembre 2016.
Di diverso avviso si sono rivelate tuttavia le Sezioni Unite della Suprema Corte che, in accoglimento del ricorso dell’avvocato meneghino, cassa la sentenza in quanto affetta dal vizio di falsa applicazione della norme, annullando la sanzione inflitta dal C.O.A. di Milano, sulla scorta delle seguenti condivisibili argomentazioni:
- l’art. 58 del Codice Deontologico vigente ratione temporis statuisce che: “Per quanto possibile, l’avvocato deve astenersi dal deporre come testimone su circostanze apprese nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto. L’avvocato non deve mai impegnare di fronte al giudice la propria parola sulla verità dei fatti esposti in giudizio. Qualora l’avvocato intenda presentarsi come testimone dovrà rinunciare al mandato e non potrà riassumerlo”;
- detta norma deve essere letta alla luce delle disposizioni del codice di procedure penale in punto di testimonianza, ed in particolare dell’art. 200 c.p.p., ai sensi del quale è coperto dal segreto professionale esclusivamente quanto appreso dall’avvocato “…nell’esercizio della propria attività professionale e inerenti al mandato ricevuto”;
- nel caso di specie, invece, la Suprema Corte ha ritenuto che la testimonianza resa dal collega non abbia integrato la violazione dell’art. 58 C.D.F. in quanto: a) esulante da fatti e circostanze apprese nel corso del mandato difensivo; b) si è trattato non di fatti o circostanze empiriche bensì di “…opinioni ed apprezzamenti circa la personalità dell’imputata, per nulla collegati al rapporto di mandato difensivo intercorso tra i due”; c) la sentenza del C.N.F., da ultimo, non ha escluso che detti apprezzamenti siano stati maturati, dopo la cessazione del mandato difensivo, nel successivo rapporto di amicizia e frequentazione instauratosi tra i due.
Cliccare di seguito per il testo del provvedimento: Cassazione Sez. Un. Civili, sentenza n. 22253 del 25 Settembre 2017, pubblicata il 1° novembre 2017