La Suprema Corte, sez. III^ civile, con sentenza n°10377 del 27 aprile 2017, si è pronunciata su un’annosa questione, oggi disciplinata normativamente dalla legge c.d. “Cirinnà”: il godimento dell’immobile da parte del convivente more uxorio del proprietario, dopo il decesso di quest’ultimo.
La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una convivente more uxorio a cui, dopo la morte del compagno proprietario dell’immobile, era stato intimato, da parte della moglie separata e della figlia dello stesso, il rilascio di quest’ultimo.
I giudici di primo e secondo grado, non condividendo le motivazioni addotte dalla difesa della ricorrente, rigettavano la domanda della stessa, ritenendo che “…il prolungato rapporto di convivenza ‘more uxorio’ (…) non attribuisse alla prima alcun titolo idoneo a possedere o detenere l’immobile, né il diritto di abitazione ex art. 540 co. 2 e 1022 c.c. riservato al coniuge”.
L’ex compagna, lungi dal darsi per vinta, ricorreva per cassazione sostenendo, inter alia, che l’evoluzione del concetto di famiglia avrebbe portato la giurisprudenza di legittimità e costituzionale a ritenere l’affectio derivante dalle convivenze “more uxorio”, caratterizzate da apprezzabile stabilità, come interesse meritevole di tutela, “…riconoscendo al convivente non titolare di diritti reali o relativi sull’immobile destinato ad abitazione della coppia, la titolarità di una relazione con il bene qualificata come detenzione autonoma, tale da legittimare il godimento del bene anche dopo il decesso del convivente”.
Di diverso avviso sono tuttavia gli Ermellini, distinguendo a seconda che il convivente proprietario sia o meno in vita. Secondo la Suprema Corte, pertanto:
- in costanza di convivenza, il convivente non proprietario avrebbe un interesse proprio avente i connotati di una detenzione qualificata dell’immobile, in virtù del quale sarebbe legittimato ad esperire l’azione di spoglio, in caso di sua estromissione violenta o clandestina, non solo nei confronti dei terzi ma dello stesso convivente proprietario;
- a seguito della morte del convivente proprietario (o semplicemente a seguito di una scelta libera delle parti), tuttavia, il diritto avente ad oggetto la detenzione qualificata dell’immobile verrebbe meno e non sarebbe più esercitabile nei confronti dei terzi, non potendo la rilevanza sociale e giuridica della convivenza di fatto incidere sul legittimo esercizio dei diritti spettanti ai terzi sul bene immobile.
Pertanto, secondo la Suprema Corte, una volta deceduto il convivente proprietario, nel regime anteriore a quello introdotto dalla legge Cirinnà, la protrazione della relazione tra convivente superstite e bene potrebbe legittimamente sussistere unicamente in due ipotesi:
- a) qualora il convivente superstite sia istituito coerede o legatario dell’immobile, in virtù di disposizione testamentaria;
- b) qualora sia costituito un nuovo e diverso titolo di detenzione da parte degli eredi del convivente proprietario.
La Corte chiarisce altresì l’inapplicabilità ratione temporis al caso di specie della disposizione dell’art. 1, co. 42, della l. 76/2016, “…che conferisce al convivente superstite un diritto di abitazione temporaneo (non oltre i cinque anni) modulato diversamente in relazione alla durata della convivenza ed alla presenza di figli minori o disabili”.
Unico rimedio, seppur parziale, nel regime anteriore all’introduzione della legge Cirinnà, rimane, ad avviso degli Ermellini, il ricorso al principio di buona fede e di correttezza “…che impone al soggetto che legittimamente intende rientrare, in base al suo diritto, nella esclusiva disponibilità del bene, di concedere all’ex convivente un termine congruo per la ricerca di una nuova sistemazione” (sul punto Cass. 7214/13).
Di seguito il testo del provvedimento: Cassazione civile, sez. III^, sentenza n°10377 del 27 aprile 2017