Sulla risoluzione del contratto

Il Tribunale di Milano[1], in un fattispecie in cui l’attrice committente aveva contestato la corretta esecuzione dei lavori da parte della convenuta appaltatrice, così non ritenendo dovute le somme richieste dall’appaltatrice stessa, richiamando la decisione della Suprema Corte secondo cui «l’art. 1668 cod. civ., nell’enunciare il contenuto della garanzia prevista dall’art. 1667 cod. civ., attribuisce al committente, oltre all’azione prevista per l’eliminazione dei vizi dell’opera a spese dell’appaltatore o di riduzione del prezzo, anche quella di risoluzione del contratto, salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore» (Cass. Civ. 3199/2016), non avendo la committente chiesto né l’eliminazione dei vizi dell’opera né la riduzione del prezzo né la risoluzione del contratto, ma soltanto l’accertamento della ‘non debenza’ della fattura emessa, ha ritenuto che una domanda siffatta, vòlta a negare l’intero compenso, «può qualificarsi ai sensi dell’art. 1668 secondo comma c.c., unica ipotesi in cui il committente può esimersi dall’integrale pagamento del compenso laddove si riscontrino difformità o vizi dell’opera tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione».

E tuttavia, ritiene il Tribunale, che nella fattispecie non era emerso che i servizi prestati dalla appaltatrice fossero stati del tutto inidonei allo scopo ovverosia che le prestazioni effettuate dall’appaltatore, considerate nella loro unicità e complessità, non presentavano vizi tali da renderle del tutto inidonee alla loro destinazione e da giustificare l’integrale ‘non debenza’ del compenso della convenuta.

A conforto, il Tribunale ha richiamato la sentenza degli Ermellini (n. 5250/2004) secondo cui «Ai fini della risoluzione del contratto di appalto per i vizi dell’opera si richiede un inadempimento più grave di quello richiesto per la risoluzione della compravendita per i vizi della cosa, atteso che, mentre per l’art. 1668, secondo comma, cod. civ. la risoluzione può essere dichiarata soltanto se i vizi dell’opera sono tali da renderla del tutto inidonea alla sua destinazione, l’art. 1490 cod. civ. stabilisce che la risoluzione va pronunciata per i vizi che diminuiscano in modo apprezzabile il valore della cosa, in aderenza alla norma generale di cui all’art. 1455 cod. civ., secondo cui l’inadempimento non deve essere di scarsa importanza, avuto riguardo all’interesse del creditore. Pertanto la possibilità di chiedere la risoluzione del contratto di appalto è ammessa nella sola ipotesi in cui l’opera, considerata nella sua unicità e complessità, sia assolutamente inadatta alla destinazione sua propria in quanto affetta da vizi che incidono in misura notevole  – sulla struttura e funzionalità della medesima sì da impedire che essa fornisca la sua normale utilità, mentre se i vizi e le difformità sono facilmente e sicuramente eliminabili, il committente può solo richiedere, a sua scelta, uno dei provvedimenti previsti dal primo comma dell’art. 1668 cod. civ., salvo il risarcimento del danno nel caso di colpa dell’appaltatore. A tal fine, la valutazione delle difformità o dei vizi deve avvenire in base a criteri obiettivi, ossia considerando la destinazione che l’opera riceverebbe dalla generalità delle persone, mentre deve essere compiuta con criteri subiettivi quando la possibilità di un particolare impiego o di un determinato rendimento siano dedotti in contratto» (Cass. sentenza n. 5250/2004).

Neppure i danni asseritamente subìti potrebbero comportare una riduzione del compenso, così come escluso dalla giurisprudenza secondo cui «In materia di appalto, la disciplina dettata dall’art. 1668 in tema di difetti dell’opera, in deroga a quella stabilita in via generale in tema di inadempimento del contratto, concede al committente la possibilità di domandare la risoluzione del contratto soltanto nel caso in cui i difetti dell’opera siano tali da renderla del tutto inadatta alla sua destinazione, mentre negli altri casi il committente può agire con le alternative azioni di eliminazione dei vizi o di riduzione del prezzo, soltanto nell’ottica del mantenimento del contratto. Pertanto, nel caso in cui il committente abbia domandato il risarcimento del danno in correlazione con la domanda di risoluzione e i difetti non siano risultati tali da giustificare lo scioglimento del contratto, la domanda di risarcimento non può essere accolta per difetto della “causa petendi”» (Cass. Civ., 9295/2006 e 4366/2015).

Non è restato al Tribunale che rigettare la domanda dell’attore.

[1] Sez. VII, 23.10.2018, n. 10713

Cristiana Centanni

Titolare dello Studio omonimo, iscritta al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma dal 16 dicembre 1996 e all’Albo Speciale Cassazionisti dal 24 aprile 2009, si è occupata, subito dopo la laurea in giurisprudenza, ottenuta con lode, della materia delle opere pubbliche e del relativo contenzioso giudiziale civile, amministrativo ed arbitrale. Coltiva e pratica il diritto delle obbligazioni contrattuali in generale ed è esperta nella materia dei contratti pubblici di appalto di lavori, servizi e forniture, nel diritto civile e immobiliare. L’amore per la politica forense, specie nel difficile momento di oscurantismo che l’Avvocatura sta attraversando, hanno spinto l’Avv. Cristiana Centanni a far parte di AFEC, Associazione che, tra l’altro, si propone di sostenere quanti intendono intraprendere la professione forense, tanto affascinante quanto complessa.