UNA TASSA ODIOSA, IL C.U. NELLE CAUSE DI LAVORO E PREVIDENZA

DI BARBARA DALLE PEZZE

 

In questo periodo di grave crisi economica, uno dei problemi più diffusi (e di cui non si parla a sufficienza) è il mancato pagamento delle spettanze dovute ai lavoratori dipendenti. Ne consegue che gli stessi sono, il più delle volte, obbligati ad intraprendere una procedura giudiziale di recupero del proprio credito. Solo tramite la procedura giudiziale, infatti, nell’ipotesi in cui il datore di lavoro non paghi spontaneamente il dovuto, il lavoratore potrà accedere al cd. Fondo di Garanzia costituito presso l’INPS, e conseguire il riconoscimento almeno parziale delle proprie spettanze (il predetto Fondo, come è noto, garantisce il pagamento del TFR e degli ultimi 90 giorni di retribuzione, con i limiti temporali e quantitativi di cui alla vigente normativa).

 

Come si è rilevato, questo è un problema che riguarda moltissimi lavoratori e lavoratrici, e di cui (incredibilmente) non si sente discutere nei salotti televisivi dei talk-show (evidentemente troppo impegnati a dibattere delle soap-opera politiche che ci vedono tristi spettatori da anni).
Tuttavia i nostri legislatori ben conoscono il fenomeno e la sua entità, e non hanno esitato a trovare il modo per “far cassa” anche su ciò.

 

Infatti, con D.L. del 6/07/2011 n. 98 (convertito con l. 111/2011) si è abrogato il principio della gratuità della cause di lavoro sancito dalla legge 533/1973 e si è introdotto l’obbligo di pagamento del contributo unificato anche per le cause di lavoro e di previdenza sociale, mantenendo l’esenzione solo per chi risulti, in base all’ultima dichiarazione dei redditi, titolare di reddito imponibile inferiore ad euro 31.884,48= (escluso il ricorso dinanzi alla Corte di Cassazione).

 

Non solo.

 

Inizialmente, nel dubbio del testo normativo, i Tribunali e la dottrina ritennero che dovesse farsi riferimento al reddito personaledell’interessato. E ritennero altresì che per i procedimenti monitori (ossia quelli volti ad ottenere l’emissione di un decreto ingiuntivo) il contributo unificato dovesse essere ridotto della metà, come accade per le cause non giuslavoristiche (riduzione che, del resto, si giustifica per il fatto che trattasi di una procedura divisa in 2 fasi, la prima a cognizione non piena per la quale si paga la metà del contributo unificato, e la seconda, eventuale, che radica il procedimento cognitorio nel contraddittorio della controparte, tenuta quindi a pagare l’altra metà dell’imposta).

 

Ebbene, ad eliminare ogni possibile interpretazione favorevole al lavoratore (e non solo) è intervenuto il Ministero della Giustizia, con circolare 11/05/2012, nella quale, in primis, si è ben chiarito che deve considerarsi il reddito FAMILIARE, con l’ovvia conseguenza (intenzionale?) di abbassare la soglia dell’esenzione dall’obbligo di pagamento del contributo unificato.

 

Secundis, si chiarisce che per le cause volte ad ottenere ingiunzione di pagamento relativamente a crediti derivanti da rapporti individuali di lavoro o di pubblico impiego e per le relative opposizioni “il contributo unificato è applicato secondo le disposizioni dell’art. 13, comma 3, del D.P.R. 115/2002 escludendo, quindi, la possibilità di una doppia riduzione”.

 

Altrimenti detto, per le cause monitorie in materia di lavoro (eccetto quelle relative a rapporti di previdenza ed assistenza obbligatori) il contributo unificato previsto va pagato interamente. E se la controparte intende opporsi all’emesso decreto ingiuntivo, dovrà pagare un altro (intero) contributo unificato.

 

Del resto non si capisce a quale “doppia riduzione” alluda il Ministero. Spieghiamo solo a noi stessi che l’ammontare del contributo unificato per le cause di lavoro semplicemente deve intendersi determinato, nel suo intero, secondo i parametri di cui al provvedimento che ne ha introdotto l’obbligo di pagamento (abrogando il principio della gratuità delle cause di lavoro, ricordiamolo).

 

Infine, non può tacersi una severa censura per l’iniquità del parametro di riferimento individuato per determinare il diritto o meno del lavoratore all’esenzione dall’obbligo di pagamento del contributo unificato, ossia l’ultima dichiarazione dei redditi, che come è noto si riferisce all’anno precedente, ed è quindi inidonea a fotografare la reale situazione economica del lavoratore. Si pensi ad esempio ad un lavoratore che, nel Febbraio 2012 decida di azionare un proprio credito da lavoro dipendente per mancato pagamento di, 5 o 6 mensilità. Costui potrebbe risultare titolare di un reddito (familiare e lordo, si badi bene!) superiore ad € 31.884,48= in base all’ultima dichiarazione dei redditi del 2011, che però si riferisce al 2010. In realtà però egli è un lavoratore (ed una famiglia) che non percepisce lo stipendio da 5-6 mesi!

 

Augurandoci, dunque che il legislatore voglia apporre i dovuti correttivi per eliminare le evidenti pecche di un provvedimento (incluse le successive Circolari interpretative) il cui intento pare quello di “far cassa” anche sul contenzioso giuslavoristico, a parere della scrivente dovrebbe considerarsi seriamente l’ipotesi di reintrodurre il principio della gratuità almeno per le procedure volte ad ottenere il pagamento delle spettanze retributive, contributive ed assistenziali.

 

L’etica imporrebbe la gratuità anche per le controversie volte ad ottenere declaratoria di illegittimità del licenziamento.

 

Poiché tuttavia ci si rende conto che la congiuntura economica (e men che mai quella politica) non è favorevole all’accoglimento delle istanze sopra formulate, in via subordinata si propone, umilmente, di considerare l’opportunità di introdurre la gratuità (o, in ulteriore subordine, il pagamento di un contributo forfettario di costo modestissimo unitariamente determinato) almeno per le procedure monitorie volto al recupero del credito fondato su busta-paga o equipollenti. Prevedendo l’onere del pagamento del contributo unificato a carico del resistente che eventualmente si opponga (salva la rifusione delle spese in caso di vittoria di causa, ovviamente).