Danno da fermo tecnico? Addio alla presunzione, va comprovato e quantificato – Corte di Cassazione, sez. III^ Civile, sentenza 11 aprile – 31 maggio 2017, n°13718

Tra i danni di cui si chiede usualmente il risarcimento, in conseguenza di un incidente stradale, si annovera il c.d. danno “da fermo tecnico” o “da sosta tecnica”, consistente tanto nella perdita economica conseguente alla necessità di procacciarsi un veicolo sostitutivo, quanto nel mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che si sarebbero potuti conseguire attraverso l’uso del mezzo.

Il risalente e superato orientamento della Suprema Corte

La giurisprudenza più risalente – ex multis Cass. 23/06/1972, n°2109; Cass. 14/12/2002, n°17963; Cass. 13/07/2004, n.12908; Cass. 09/11/2006, n°23916; Cass. 08/05/2012, n°6907; Cass. 19/04/2013, n°9626; Cass. 04/10/2013, n°22687; Cass. 26 giugno 2015, n°13215), a riguardo, riteneva detto danno in re ipsa, ovvero sussistente a seguito della mera indisponibilità del veicolo, anche a prescindere dall’uso effettivo cui la vettura era destinata, con la conseguenza:

  • di esonerare il richiedente dalla specifica e concreta dimostrazione del pregiudizio economico subito;
  • di consentire la liquidazione in via equitativa, ai sensi dell’art. 1226 c.c., del predetto danno.

Il revirement degli Ermellini

Negli ultimi tre anni, tuttavia, la Suprema Corte, a partire dalla celebre sentenza n°20620 del 14 ottobre 2015, ha mutato il proprio indirizzo chiarendo come il danno da fermo tecnico non possa qualificarsi, come avvenuto in precedenza, quale danno in re ipsa, e onerando conseguentemente colui che agisca al fine di ottenere il predetto risarcimento dell’allegazione, dimostrazione e quantificazione della perdita subita dal suo patrimonio.

Dette conclusioni sono state recentemente ribadite dalla Suprema Corte con sentenza 11 aprile – 31 maggio 2017, n°13718, alla luce delle seguenti condivisibili motivazioni.

La non configurabilità di un danno in re ipsa

Partendo dallo stesso concetto di danno in re ipsa, la Cassazione chiarisce come detta nozione sia “…estranea al nostro ordinamento che subordina il risarcimento alla sussistenza di un concreto pregiudizio della sfera giuridica patrimoniale o non patrimoniale del richiedente”.

A ciò consegue l’onere in capo a colui che asserisca di aver subito in concreto il danno, di comprovarlo debitamente.

La quantificazione del danno

Gli ermellini, passando poi alla quantificazione del danno, affermano che:

  • la liquidazione equitativa del danno, ai sensi dell’art. 1226 c.c., è “…consentita soltanto a condizione che sia obiettivamente impossibile o particolarmente difficile dimostrare, nel suo preciso ammontare, il danno di cui è peraltro provata con certezza la sussistenza (tra le più recenti, Cass. 08/01/2016, n°127 e Cass. 28/12/2016, n°27183)”;
  • l’orientamento pregresso riteneva – attraverso un’applicazione distorta dell’art. 1226c. – automatico il danno determinato dalla sosta forzata del veicolo, individuandolo “…nelle spese necessariamente sostenute dal proprietario del veicolo incidentato per il pagamento del premio di assicurazione e della tassa di circolazione”;
  • in verità dette voci non possono costituire un danno né essere liquidate in via equitativa in quanto “…bollo di circolazione è ormai una tassa di possesso da pagarsi indipendentemente dall’utilizzo del mezzo (art°5 d.l°n°955 del 1982, convertito, con modificazioni, nella l°n.53 del 1983) mentre la conseguenza economica negativa derivante dal pagamento del premio assicurativo (comunque non inutile, atteso che il veicolo potrebbe recare danno a terzi anche durante la sosta tecnica) potrebbe essere in concreto evitata dal danneggiato chiedendo la sospensione dell’efficacia della polizza”;
  • parimenti, il precedente indirizzo giurisprudenziale, al fine di qualificare “…il pregiudizio da sosta tecnica quale danno in re ipsa è costretto, non solo ad individuare un nesso di consequenzialità necessaria tra il fermo del veicolo e il suo deprezzamento (nesso evidentemente insussistente, atteso che il deprezzamento è una conseguenza del sinistro e non della successiva sosta tecnica, la quale, al contrario, potrebbe far recuperare valore al mezzo), ma anche a negare rilevanza all’uso effettivo a cui il veicolo in riparazione era destinato, omettendo di considerare che, al contrario, l’uso effettivo del veicolo assume rilievo determinante ai fini della esistenza di un danno risarcibile, non potendosi dubitare, sotto questo aspetto, della differenza intercorrente tra il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato solo per ragioni di svago e il pregiudizio derivante dal fermo di un mezzo utilizzato per ragioni di lavoro”.

 

Il principio affermato dalla Suprema Corte

Alla luce delle considerazioni sopra esposte, gli Ermellini cristallizzano il seguente condivisibile principio: “…idanno derivante dall’indisponibilità di un autoveicolo durante il tempo necessario per la riparazione, deve essere allegato e dimostrato da colui che ne invoca il risarcimento, il quale deve provare la perdita subita dal suo patrimonio in conseguenza della spesa sostenuta per procacciarsi un mezzo sostitutivo (danno emergente) oppure il mancato guadagno derivante dalla rinuncia forzata ai proventi che avrebbe conseguito con l’uso del veicolo (lucro cessante).

 

Alla luce del revirement giurisprudenziale della Suprema Corte e del principio sopraesposto, si può pertanto affermare che il danno da fermo tecnico:

  • non possa considerarsi in re ipsa, con conseguente onere incombente sul danneggiato di allegare e comprovarne l’esistenza, a partire dall’uso effettivo del veicolo e/o dalla spesa sostenuta per procacciarsi un veicolo sostitutivo (in particolare se per ragioni di lavoro);
  • non possa identificarsi con il pagamento del “bollo d’assicurazione”, essendo lo stesso una tassa di possesso da pagarsi indipendentemente dall’utilizzo del mezzo;
  • non possa tantomeno derivare dal pagamento del premio assicurativo, ben potendosi evitare detta conseguenza economica pregiudizievole semplicemente chiedendo la sospensione dell’efficacia della polizza.

Cliccare di seguito per il testo del provvedimento: Corte di Cassazione, sez. III^ Civile, sentenza 11 aprile – 31 maggio 2017, n°13718

Luigi Romano

Avvocato del foro di Roma, cofondatore dello studio Legale Martignetti e Romano, docente di diritto civile nei corsi di preparazione per l’esame d’avvocato e collaboratore delle cattedre di diritto dell’Unione europea, European Judicial Systems e della Clinica legale CEDU presso l’università di Roma Tre. Ho completato i miei studi accademici con un master in Homeland Security presso il Campus Bio Medico e con un dottorato europeo in diritto di famiglia nel diritto internazionale privato dell’Unione europea tra l’università di Roma Tre, Lund University (Svezia) e la Universidad de Murcia (Spagna). Credo fermamente nella funzione sociale che l’avvocato ha l’onore e l’onere di esercitare e nello spirito di colleganza e unione che aimè sempre meno si riscontra tra le aule di Tribunale. Da poco più di un anno mi sono affacciato con passione nel mondo della politica forense assieme ad AFEC, come membro del suo rinnovato Direttivo, con la fiducia che uniti potremo ridare il lustro e il prestigio che il nostro Ordine ha avuto in passato e che deve tornare ad avere. All’interno di Afec mi occupo dell’organizzazione dei convegni, della redazione di articoli giuridici e note a sentenza, specie in ambito di diritto di famiglia, diritto civile, diritto internazionale privato e diritto dell’Unione europea.